domenica 31 ottobre 2004

La vita è balorda, ma ha sempre ragione

Si, la vita è balorda, ti strapazza da tutte le parti insieme, ti fa credere che sei amato e poi non era esattamente così ma forse diverso. Le sfumature valgono come atti e dunque roba definitiva, altro che parole o gesti teatrali, sono le sfumature quelle che costruiscono e distruggono. Lì, nel territorio del non detto e del non capito, sto così a disagio che vorrei finirmi la bottiglia di moscatel e invece mi costringo ad assaporare soltanto una tazzina, non sia mai che mi trovo al ritorno i carabinieri e mi capita un controllo, sudo freddo. Mi fermo ad un baretto di Agosta e con la scusa di due paste da portare a casa mi bevo un caffè bien corsé, mentre accanto vanno e vengono bicchieri di sambuca e di whisky, qua tutti uomini a quest’ora postprandium, e riparto con la bocca bene amara. Un pensiero che mi martella, l’autostrada, desiderio di correre ancora più forte, ma ho l’autocontrollo meglio delle Mercedes, poi c’è traffico.

Balorda, che parola per definire tutte le mie incomprensioni, l’incassare e pagare di ogni gesto ed azione, i silenzi che vogliono dire tante cose ma tacciono per l’eternità. Eppure so nel fondo che non c’è alcun errore, che è tutto lineare, che tutto finirà e rimarrà ricordo, finalmente innalzato, eterno, nella mia memoria.

venerdì 29 ottobre 2004

Piano

Vedo continuamente pubblicità e sento molti amici che mi parlano dei vantaggi di questo o di tal’altro fornitore di servizi o vantaggi listati nei dépliant e in tv. Palinsesti di venti tipi di cinema, del nostro sport preferito, della storia e della letteratura. Una linea per ogni abitante della casa. Un colore, un odore per ogni passo che diamo. Ma “ognuno in fondo perso negli affari suoi” (Vasco Rossi docet). E quando li sento difficilmente mi sparisce una sensazione come di fiera campionaria: si, tutti andiamo a vedere i nuovi trattori, con le ruote alte più di un metro, e calcoliamo quanti capelli bianchi ci verranno nel pagarli, e pensiamo all’effettivo vantaggio, ci diverte, bello eh?; ma sicuramente non riusciamo ad andare con questo pensiero più in là di un mese, forse un anno. Se il campo rimane abbandonato perche abbiamo altri impegni, il trattore arrugginisce e noi, però, lo paghiamo e lo pagheremo ancora… Gli abbonamenti, i pacchetti, il collegamenti esclusivi: non sappiamo quanto ci puo durare il giocattolo che stiamo per comprare, ma intuiamo che se si rompe, anche se ci annoiamo un pochino, l’investimento non sarà valso a niente, avremo buttato il denaro. Nel rumore mediatico questa intuizione, pulsione antica come l’uomo, che fa parte della sua essenza, viene accuratamente, VOLUTAMENTE seppellita.

Sfruttare quel che compriamo e soprattutto sfruttare quello che offre contenuti e che ci attira con le promesse di poterci vedere e/o godere i concerti di tizio o gl’incunaboli scannerati di caio è quasi impossibile per molto tempo di seguito. Sfruttare le possibilità di informazione e cultura vuol dire poter dopo continuare, fare ricerca, scoprire e confrontarsi, arricchirsi ed arricchire, mentre viene offerto un divertimento momentaneo, pagabile comodamente, VUOTO. Mi viene sempre da pensare a Momo, libriccino nel quale il tema primordiale è la sottrazione del tempo, la trasformazione di questo tempo in denaro - e dunque in tempo comprato che altri sfruttano, e questi altri sanno como sfruttarlo, sanno rallentare - dando in cambio un illusorio potere di sfruttamento dei propri gusti e desideri. La sindrome del supermercato che mi prende quando vado ad un centro commerciale monstre in cui praticamente ogni servizio mi è offerto, eccetto quello per cui sono andata lì: la possibilità di risparmiare tempo, che è il mio solo valore. Rallentare. Bisogna capire che l’importante forse non è avere tutto a portata di mano, ma avere la possibilità di godere di qualcosa con l’intensità necessaria a fare di questo un vantaggio, un vero arricchimento umano. Mangiare sentendo i sapori. Guidare piano, guardando i cambiamenti del cielo. Guardare le persone e pensarle. Leggere e poter sottolineare, fermarsi a pensare, elaborare frasi più lunghe. Ascoltare la musica che ci piace, ma in un tempo senza interruzioni, dal quale possiamo liberamente uscire per continuare ad affrontare il caos…

giovedì 28 ottobre 2004

Net to be_wow

Io lo conosco, un sociologo!. Ha ragione lui: R:ob Grassilli


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Una citazione

Quando le gente mi domanda se, quando mi siedo a scrivere, ho davanti un pubblico preciso, io dico loro di no, che non ho davanti nessuno, ma la verità è che ho davanti a me una moltitudine immensa, una moltitudine anonima, nella quale posso forse riconoscere qua o là un viso amico: dentro questa moltitudine vedo come si accumula un calore lento ed ardente che in un certo momento fu una sola immagine: lo vedo sparpagliarsi, infiammarsi, sollevarsi fino ad esplodere. (La sola volta che uno scrittore riceve il premio che merita è quando qualcuno gli si avvicina ardendo con quella fiamma che lui stesso ha ravvivato in un momento di solitudine. La critica sincera non ha alcun valore: quello che uno vuole è passione sfrenata, fuoco in cambio di fuoco).

Henry Miller, Sexus

Romanista della luce

Certamente, quando questa città fu fondata, nessuno pensava molto alla gamma di luci del mattino o della sera che si succedono come in un concorso di fuochi d’artificio tutti gli ottobri e parte dei novembri. Si scrutava il cielo per trovarne predizioni, segni, anticipazioni di prodigi o di disastri: il cives romanus guardava di più il cielo di quanto lo fanno adesso i suoi concittadini. Indubbiamente anche, aveva un cielo più grande del nostro di adesso, limitato da tutte le parti da palazzi ed antenne. Ma quando si arriva in questo periodo dell’anno, proprio adesso che tuto sta per finire e che l’autunno e l’inverno si scambiano delle occhiate velenose come fossero su due corsie del GRA, la féerie dei cieli si accentua in un modo tale che alle volte rimango senza respiro, e lascio apposta in casa la fida macchinetta fotografica da supermercato, perché so che questa luminosità è da pennello, da grassa pittura ad olio e da grande velocità di realizzazione sulla tela. Oggi sono uscita da casa e subito capitata dentro una garza rosarancione; maledicendo a bassa voce il non poter mollare tutto ed andarmene per un’oretta in giro soltanto per riempirmi gli occhi di colore, sono andata verso la macchina pensandovedendo, alle case del centro, a Corviale sicuramente rosa nella sua solitudine sul colle, alle luci filtrate nelle strade del ghetto, al colore delle foglie dei platani sul Tevere, e nel frattempo guardavo le case intorno, anche la mia casa, regolamentari nei loro colori ocre e mattone e beige e crema, che assorbono il calore di questa luce e la ridanno dopo, tutte fornelli accesi di colore. Sopra, il cielo mostrava il passaggio di striscioni di nuvole dai capelli giallograno, che ad ogni minuti si faldavano in grigi e bianchi di venti tonalità diverse. Invidiavo i piloti che atterrano a Ciampino e che sicuramente si godono le albe ed i tramonti da altri punti di vista; li invidiavo e volevo essere lassù, mentre sotto di noi continua a girare la terra. In fondo allo sguardo, verso le mini-colline di Tivoli, un sipario di nuvole invidiose, che fanno loro sembrare più alte, e poi un cerchio immenso d’oro pallido, da scrigno che si apre e fa vedere i tesori, ed il sole si stiracchia, ha bisogno ancora di due o tre caffè come me (no, io di più), spia guardingo strisce di celesti portati su da scie di nuvolette bimbe ed esce. Mezz’ora ed è già luce piatta, NORMALE. “Oggi piove”, dicono le donne delle pulizie.

Si, tutto si è richiuso, ma io sono bruciata e consumata e radioattiva di luce…

martedì 26 ottobre 2004

QuantosseibbellaRoma_5 (anche le autostrade)


Un timido sole: poi diventerà impietoso con noi, che dapertutto corriamo, che ci buttiamo nel tunnel.... Posted by Hello

Quella parte lì, quella meno bruciata

Entro in una pizzeria a taglio, per la pizza bianca. Non è un granché ‘sta pizza, nel quartiere non ci sono che apprendisti, l’impasto è industriale e non ha alcun sapore: o troppo croccante, secca, o troppo gommosa, grassa di quel grasso vegetale che non è olio, ma miscela delle miscele delle miscele. Eppure questa è appettibile, come tante. Tante le decorazioni: gamberetti, lattughina, pomodorini, maionese, le zucchine sdraiate sotto la mozzarella, funghi sparsi lucidati in mezzo ad un mare rosso. Ci sono i calzoni allineati dietro una vetrinetta. Incombe, riferito da un cartello, il kebab che non gira più, pallido, è spento il fornetto verticale: soltanto nel cartello vive e quasi profuma. Il posto è microscopico e male illuminato. Dietro il banco una ragazza sfiorita dai figli, dal marito, dal lavoro a lei sconosciuto che mima molto bene; taglia con i gesti esatti, pesa nei tempi giusti, calcola i numeri rossi della bilancia, e alle volte, con un sorriso stanco, mi fa lo sconto, dieci centesimi o altro perché le ho dato moneta spiccia o forse perché anch’io sorrido, curiosa. Fuori, un vecchietto, da qualche giorno, beve la birra, con gli occhi spenti, che nemmeno guardano il traffico, rigirati su di sè; oppure vedo ragazzi con argentate prolunghe delle mani, cellulari dai ghizzi blu o rossi, e molta agitazione nel conversare, mentre il pomeriggio scivola come soltanto a Roma, impercettibile, scivola il tramonto nella morbida notte.

E vorrei tanto raccogliere le sue confidenze, anzi vorrei scambiarle. Perché lei tiene i capelli stretti nel fazzoletto, sempre, coperta fino al collo, dai vestiti annullata: sono soltanto vive le mani, che l’acqua ha danneggiato, schiave dei coltelli ma ad essi estranee, non cedendo nemmeno una grazia, un abbozzo di carezza nell’aria. Tagliare, soltanto tagliare. Occhi scuri scuri, e molto dolorosi, una durezza immensa, uno sguardo ben chiuso.

Fuori il traffico, che prende alla gola. Vedo nelle persone fluttuare l’istinto aggressivo, mentre tentano di passare in mezzo alla lamiera infinita. Mi porto via la mia pizza inmangiabile, che sarà rifiutata, perché porta dentro il disamore…

lunedì 25 ottobre 2004

Net to be_again

Continuate qui, è 'na miniera: R:ob Grassilli


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Shortwaves

Oggi null’altro che io robotizzato. Ho taggato e reso rosse le cose evidenziate. Il giorno è scivolato come si scivola in quei pantaloni a lungo abbandonati nell’armadio, condannati da due chili di troppo, quando i due chili sono finalmente spariti. Pensavo di finire così la mia giornata, nella normalità di un giorno casalingo, senza lasciare traccia. Eh, ma no, succede sempre qualcosa; perché io cerco sempre, come fossi un occhio magico che trema nel raccogliere le onde radio degli altri. Un gracchiare di sentimenti e di gesti, l’istinto gira la manovella della massima espressione: a volte soltanto i movimenti esprimono, un camminare che mi ricorda un altro, delle mani, la stanchezza di una mano che indica e quasi cade. Sono stata éblouie, fusa da un solo sguardo. Ah, che ironia, e anche quanto fastidio nel togliersi da davanti la polvere degli altri! Prepotente. Compagni amatiodiati ti studiano e disarmano per un unico breve secondo e mezzo. Poi passeggi là sotto, e ogni tanto mi cerchi con gli occhi, non capisco perché. Deve esserti andata così bene la giornata. Forse anche la notte, la mattina furono fruttuose di contatti e di odori. Lo vedo dal modo in cui passeggi; queste cose lasciano come un aura, un bel velluto intorno, un certo tipo di salute. E volevo ignorarti, fare la sostenuta; in fondo, pane e sale, né mo’, né mai domani. Eppure quello sguardo malandrino girava un 180° per ritrovare il mio.

Sorpreso, forse, nel non trovare dentro l’ansia di tutti gli altri giorni?

sabato 23 ottobre 2004

Una poesia

Espormi così tanto,
perché sì e perché basta,
ubriaca di questa mia asensazione
al termine di una notte che ormai mi è traditrice
- è gelosa di te -
ho armato la mia mano
nella quale c’era un mazzo di baci ben convinti
ed è partito in parabola l’amore
verso il computer spento.
In contemporanea,
ho visto bruciare la tua barchetta
con tutti quanti dentro
per essermi permessa
di sbagliare indirizzo. Complimenti.
Ed al minuto dopo boccheggiavo, sparivo,
due divaricatori ben piantati nel petto,
finchè non son riuscita a metterci una pezza.
Avevo dato tutto
e tutto mi riprendo.

venerdì 22 ottobre 2004

QuantosseibbellaRoma_4


Via Sacra - Resti di romani antichi e di recenti distratti Posted by Hello

Una busta spessa, con quattro francobolli

Ricevute queste tranches de vie della tua vita, e mi piace guardarle e insieme mi prende un po’ di paura, mi viene un senso di abbisso nel soddisfare così le mie curiosità, studiare gli sguardi od i gesti delle persone o le città o le strade, i colori dovuti al sole o alla nebbia. Sento quasi le parole, perché le fotografie fissano veramente il tempo e congelano anche la metà di un pensiero, l’appena di una smorfia, li forniscono sottovuoto a chi guarda, a volte anche un po’ sgranato e come timoroso; comunque è sempre un dono. Secondo me, dovrei pagare in qualche modo questa confidenza. Quando si ha mai avuto quel che si è tanto voluto, e finalmente per caso questo arriva, e quando quel che mi arriva fa parte di un’intensa fiducia, di un aprirsi che è anche un bel volare ed è forse anche un bel sentirsi accolto, allora sento un profondo imbarazzo, una gran timidezza frutto di anni di un’interna vita soldatesca. Anche la voce e le parole belle, le musiche regalate, le scritture lodanti, un check positivo in risposta alla muta domanda, tutto ciò che conforma la fiducia degli altri, mi sembrano vestiti che mi stanno troppo bene a pelle. Vorrei sentirmici troppo bene, sì, appiccicata a queste sensazioni, ma mi maltratto. Mi guardo dunque nello specchio del bagno, perché lui è il deposito delle mie mattine e delle mie insonnie, lui conserva l’immagine impietosa delle mie pochezze; pronta a scoprire non una bensì tutte le falle. Sono dunque matrigna, invidiosa di me.

Come sarà lasciarsi, dimenticare finalmente che si è nudi?

I media passano il giorno a raccontarcelo

L’annuncio di uno sciopero dei mezzi pubblici fa diventare frenetica la città. E’ tutto un rimbombare subliminale della minaccia atomica: domani, un macello! Non andate a lavorare, aggrovigliatevi nel letto, chiudete le persiane perché fuori ci sarà un bel ciclone di latta, una tempesta di quelle che alzano da terra notizie di cronaca e titoloni bold. E voi motorizzati, pregate prima di uscire! Masse oceaniche di pedoni vi investiranno, circondando ogni mezzo (soprattutto minacciose verso gli odiati motorini) e guai ad alzare il claxon. In queste giornate io mi preparo come quando ero piccola e si partiva per una gita in montagna. Ero effervescente già dalla notte prima, le articolazioni scrocchiavano, preparare lo zaino, questosì-questonnò, ci metto il coltellino, quali calzini vanno meglio? Pane e cioccolata, per la merenda, mentre scendiamo… Leggo cose leggere, mi lavo i denti con la dovuta lentezza di un rituale preparatorio. E nemmeno il caffè mi fa effetto alcuno.
La mattina tutto va in forwardfast, adrenalina, esco che è leggermente buio ancora, una lenta resistenza tiene ancora prigioniere le strade; che ora è? Le sette di mattina o le sette di pomeriggio sono esattamente uguali, stesse luci dei bar e dei negozi, stesso cielo incerto che sta per precipitarsi dentro qualcosa; una brezza puntuale mi risveglia.
Inutile interrogare il cielo mentre guido. L’alba si apre rossa e sporca come un esplosione, ed arrivo al lavoro insieme ai pochi intoccabili da tutti gli scioperi, quelli che vincono l’ingorgo e lo lasciano ai non allenati. E quando dopo altri mi raccontano i dettagli della mostruosità umana, alla quali per oggi noi siamo rifuggiti, io sogghigno, perchè so di aver risparmiato un’energia vitale ed un tempo che non hanno prezzo…

giovedì 21 ottobre 2004

Casomai

Avete fame, adesso? Sicuramente, oltre a tante altre cose, qui troverete del buon cibo. Certo non posso essere al suo livello... io mangio e basta....

Io non posso certo trovar la soluzione

Era tardi, forse per questo ci siamo scritti cose stupide; era mezzanotte, l’ora in cui percorro casa mia in cerca di un sonno che non viene e si ostina a giocare a nascondino, a tentarmi con il silenzio di cui mi nutro; sono soggiogata, vivo in metà notte. Oggi mi sono alzata, lavati i capelli, scorreva via l’henné e con lui pensieri, e la bile trabocca. Via con eminem sulla tangenziale. Due calci al cestino della carta nell’open space, che qualche scocciato-anche-lui uomo delle pulizie si è permesso di mettere di traverso al mio percorso. Sorrisi cortesi ma con gli incisivi bene in vista. Pensavo di dover insultare oggi, per colpa tua.
Ma non sono stata capace. Sono bastate le alici, polipo e moscardini, le mazzancolle crude, il regale tonno. Tutta la rabbia mi si diluisce sotto i colori ed i profumi del buon cibo. La consistenza dei pomodori perfettamente maturi che celano, come un regalo di natale, un perfetto salmone marinato, mi scioglie tutto, tutto. Adesso c’è una mezza luna esatta nel cielo, santificata da una cornice leggera di umidità. La vedo dai vetri della piscina, mentre osservo le mamme seguire prima i bambini, poi astraersi di colpo e per molti minuti, ferme come in un quadro di Hopper; sento i loro pensieri decollare come aerei dai capelli stirati, ed eccole armate di cellulare che pensano, leggono, rispondono sotto un celluloide di rumore, battiti di mani e spruzzi amplificati, le chiacchiere dei piccoli e sotto sotto, lo strisciare delle ciabatte degli istruttori che ci ricorda tutti il tempo che passa ed il logorio dei giorni.

Tu sei sfumato adesso. Appartieni alla digestione e poi all’ioblio.

mercoledì 20 ottobre 2004

Una citazione

Amare od essere amati non è un crimine. Quel che è veramente criminale è far credere ad una persona che è l’unica che potresti amare per sempre.

H. Miller, Sexus

Ashes to ashes and dust to dust

Un grappolino di magnifica uva nera mangiato a casa, pesato. I miei colleghi si sono scolati del valpolicella insieme alla mozzarella+pomodoro+crostata troppo dolce. “Ma come, non mangi? Non è buono stare senza mangiare” e io, alzata di sopraciglio. Bisogna misurare, pesare, assaporare. Io sono una buongustaia, cannibale soltanto di salmone affumicato. Sono dunque rimasta ostinatamente incatenata alla ginnastica del solitario informatico, ben più difficile di quello manuale (provare per credere). Mentre spostavo le carte e le colonne di carte fino all’autoplay finale, sentivo nei recessi delle pieghe del mio corpo seduto il malsapore delle tue mani, ierisera. Ancora adesso, quando mi muovo, risuonano perfettamente gli ingranaggi della macchina, e la testa mi gira, come per ricordarmelo. Siamo fordisti, noi, i nostri prodotti sono lucidati, senza imperfezione.

Ma non ti faccio una colpa. Tu credi di amare, così. E’ andata così, questa volta. E il mio rasoio mentale, che non funziona. Sono irsuta dentro e mi graffio da sola….

martedì 19 ottobre 2004

Ho raccontato un giorno

E’ tardi, è tardi. Il mio diario si è aperto oggi come una bocca che sta per dire qualcosa, sempre più grande. Io ero distratta, guardavo l’oprimente cielo che si riempiva di ovatta grigiosporca. L’aria ferma. Andavo di qua e da lì, a fare questo ed a vedere quello, una vetrina e la curva di un albero, ma sentivo che il groviglio lavorava sotto nella pancia. Mi scrivevo tante cose, frasi e pezzi di orazioni, sciolti avverbi in -mente, articoli neutri a poco prezzo; tutto mischiato. Leggevo e leggevo in ogni dettaglio della vita che percorrevo e sono finita dentro un oviesse per vedere se trovavo una borsa, ma era soltanto una scusa. Ecco, allora ha funzionato la magia dei supermercati, come quando vivevo a Barcellona e andavo al corteinglés quando ero giù di corda: piani e piani lindi e pinti e pieni di una cornucopia infinita di cose brillanti e colorate, spruzzate soltanto da qualche umana che voleva ricordarmi quello che avrei trovato fuori. Ma no, io rimanevo lì a percorrere gli scaffali per ore ed ore, toccavo, leggevo pezzi di libri, sentivo gli odori delle cose. E poi uscivo ed ero pulita dentro, centrifugata. Sono uscita ed il cielo si era aperto, soltanto due filacce di cotone di nuvola sui campanili chiusi, case delle campane. Un cielo azzurro, azzurro, mentre ovunque gli amici sparsi mi parlano di freddo e mal di gola, invidiosi, malconci.

Il mio diario aperto di nuovo, dopo, mi sembrava come un sopraciglio alzato, un’ironia di attesa. Odorava di carta da quaderno scolastico, intonso. La notte, fuori, aveva spento tutto. E io dissi, amorevole: “Domani”.

Net to be_forever

Si, siamo ostaggio dei psicologi...

Andate a vedere le altre strip, leggetelo qui: R:ob Grassilli


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lunedì 18 ottobre 2004

Guidare senza meta

Saluto Omar, il guardiano notturno del garage, che esce dalla guardiola ed avanza verso il domino di macchine accuratamente parcheggiate a pochi millimetri le une dalle altre; si piazza alla mia destra, aspetta. Io sono incollata ad una Mercedes SLK. Entro, mi metto la cinta, attacco il frontalino e partono i Groove Armada, chiudo con il gomito la sicura delle porte, accendo il quadro e le anabbaglianti, giro la chiave ed esco; fuori raddrizzo lo specchietto sinistro mentre Omar fa lo stesso con il destro. Ok, posso partire. Autostrada non congestionata a quest’ora e posso accelerare. Piccole file, traffico a fisarmonica, scalo le marce e freno, riaccelero, sorpassi stretti, frecce e spostamenti veloci con frenata morbida, curve a gomito fatte in terza e lievemente frenando, sentendo non solo il corpo spostato dalla forza centrifuga, senza strafare, ma l’adrenalina. Non m’importano i camion, e le migliaia di altri come me che vanno al lavoro. Appena sotto le ruote sento il lieve fruscio di un buon asfalto ruvido stacco il pensiero del dopo e mi concentro su come il motore mi obbedisce, potrei dire quasi che anticipa le decisioni di guida. Penso a Jack Kerouac, le sue descrizioni dei viaggi in macchina. Filo come un fulmine con la linea bianca molto vicina alla mia ruota destra o sinistra. Taglio le curve che posso tagliare. Arrivata ai tornanti la mia macchina dimostra la sua vera vocazione indotta: il motore sforza, ma continua inmutabile a scivolare senza un movimento brusco. Finestrini aperti, l’aria turbina dentro. E quando finalmente mi fermo sul piazzale del supermercato, a 1300 metri di quota, respiando appieno l’aria pulita di un giorno lavorativo di ottobre (che lì dove sono arrivata significa che non c’è nessuno oltre i commercianti… saranno più di 20? Ne dubito) e il motore lo spengo, per un momento non riesco ad uscire, e vorrei continuare e continuare.

I paesaggi, le persone, il quotidiano, tutto corre accanto ai finestrini della mia vita. Da una striscia di apertura, nella porta sinistra, vicino agli occhi, alla bocca, entra quel che filtro, e mi accompagna nel viaggio. Il mio motore silenzioso mi conduce, mi porta, verso il tempo successivo, l’infinito.

sabato 16 ottobre 2004

Una poesia

Quante note di basso
le mie mani ritmano volano tagliano in un colpo
materializzano l’aria
secche
sono adesso così piene di rughe e rughette
una spiaggia
come quelle in cui il Cantabrico la mattina
lascia i baci dei gabbiani
guardo questo riposo del mio mare personale
carezzare
la guancia addormentata di mio figlio
o il dorso di un libro che mi parla ancora
e mi accorgo
che le mie mani sono
le mani di mia madre
finalmente.

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Porta del Popolo: di qua sono passati re, regine, papi, cavalieri, soldati, contadini...... Posted by Hello

giovedì 14 ottobre 2004

No, non sono cittadina italiana

Beh, sono andata a farmi mettere un timbro sul permesso di soggiorno che è in rinnovo, perchè sennò la USL non mi rinnova la copertura sanitaria.

La saletta è piena di filippini (organizzatissimi con cartelline e fotocopie e foto di tutti, sanno tutto quello che devono fare, parlano a bassa voce, non protestano se uno gli passa davanti; insomma io li ho sempre trovato assurdi, ma non possiamo fare paragoni tra i mediterranei sanguigni e gli asiatici enigmatici.. almeno credo), donne arabe con bimbi dai grandi occhi, che parlano con loro in italiano, romene che chiedono il permesso per il ricongiungimento della famiglia, ucraini, una peruviana giovanissima, scafatissima e bellissima che tutti guardano-e-ripassano, inguainata in roba jeans aderente; i gesti, spavaldi, nascondono un’insicurezza da bambina che esce fuori, con tutte le marche da bollo, dalla cartellina nella quale non c’è la necessaria fotocopia del passaporto: dall’ufficio i ragazzi la chiamano, “Vai, vai a casa e prendilo. Ti aspettiamo!!! Attenta con il motorino, che piove”. E lei va, facendo ciondolare il casco dentro il quale ho visto prima una mezza merendina….. Il poliziotto addetto, un bonazzo assurdo con fisico da surfista e occhi cerulei, insieme a una sua collega timbrano, fotocopiano, archiviano, ammucchiano (vorrei zoomare sul porta timbri: ne devono mettere circa 6, una metafora amara della burocrazia); altri colleghi vanno e vengono, consultano i terminali, fotocopiano infinitamente, si tirano palline di carta, fumano, nervosi, in barba al divieto, uscendo anche per un po' nel minicortile, scherzano, bevono caffé dalla macchinetta posta dietro a tutti noi (anch'io l'ho preso; sono assuefatta a qualunque cosa sia caldo ed abbia un minimo sapore di caffé) e sento l'ansia di tutti sfiorarmi da vicino. Io sono una privilegiata, in mezzo a storie che sento e che sicuramente i poliziotti sentono tutto il giorno fino a che, come al Pronto Soccorso, ne diventano immuni. Ragazze licenziate dalle figlie delle vecchiette a cui fino a ieri hanno cambiato i pannoloni, madri sole, separate dai figli lasciati soli o nelle mani delle vicine, uomini soli che non sanno dove andranno dopo, in quale cantiere cadranno e si romperanno una gamba, viaggiatori bloccati, con il biglietto pronto e la famiglia che strepita laggiù, nel paese di moltolontano, e così via.

Io mi siedo, aspetto, e poi mi butto a chiedere, come gli altri che non avevano “l’appuntamento”, notizie dell’agognato foglio di carta. Qualche speranza che arrivi nei prossimi giorni. La ragazza peruviana, ultima, entra nell’ufficio ancheggiando, mentre la notte scende, mentre la pioggia scende dispettosa come soltanto a Roma sa scendere la pioggia, e corro verso casa…

mercoledì 13 ottobre 2004

Deve-Avere

Quando qualcuno mi ferisce, quando senza motivo mi viene dato uno schiaffo emotivo, soltanto perché quel giorno l’altro-a si sente stanco-arrabbiato-fallito-non amato, come una bambina mi tappo le orecchie per non sentire, come se questo gesto fosse una vera difesa e non soltanto un gesto, e un’oretta dopo (mai lì per lì… ecco perché sono una buona incassatrice) mi sale una schiuma lenta, spessa di rabbia, che mi invade prima la base del diaframma, poi sale fino alla gola e si allarga, vuole uscire. Qualche volta una lacrima, altre volte tante, altre volte schiaccio con la lingua sensazioni animali, non-razionali; qualche volta ancora parlo, miracolosamente mi esce una battuta che vorrebbe essere sdramatizzatrice. E in fondo, in fondo a tutto, l’originario senso dell’innocenza. Non ho capito, non so perché, non è giusto non capire; è da malvagi, non far capire.

Qualche volta arriva una richiesta di perdono, un maldestro tentativo di spiegare, la tardiva lucidità degli impetuosi; ma io, intanto, ho cercato per un tempo infinito la mia tavoletta di cioccolata al latte. Ho cercato, miope, nei vicoli della mia solitudine infantile, quella dolcezza consolatrice. Nessuno degli offensori ne sa nulla, nessuno di loro è stato mai in grado di offrire una manifestazione qualunque che realizzasse quella tavoletta, in cambio del dolore prodotto. In mano portano soltanto il vuoto, le infinite scale piranesiane. E impietoso si riempie il libro nero.

martedì 12 ottobre 2004

Away means forever

Mi sono alzata grigia quanto il grigiore della pioggia stanca, e mi sembrava di stare a Bilbao, a Marghera, nella Bassa padana, comunque sotto la nebbia-l’industria-l’inquinamento, e poi lentamente il grigio è andato ad aprirsi, ad est un’esplosione atomica gialla – nient’altro che un sole incazzato tenuto fermo sotto una mano di umidità - tentava di riempire il cielo, ad ovest ancora nuvole sporche come stracci da pavimento, sempre di meno, sempre più sfilacciate, finché sulla tangenziale rallentata è scoppiata la luce prima radente come un pugnale, poi incombente come un manto. Incolonnata con gli altri sull’autostrada, guardo distrattamente davanti e dietro, tentando di sbirciare i visi delle persone, i gesti delle loro macchine, qualche espressione delle singole psicologie che tutte insieme cozzano e si disfano nei 12 km fino al raccordo.

Dietro a me, una ragazza al volante di una Patrol verde mi sorprende. E seria, ieratica, mi ricorda tutte le pubblicità con ragazza bionda acqua e sapone: ma non è una bellissima da copertina. Mi incuriosisce una certa sua serenità. Non porta la fede, la cintura di sicurezza sembra più una banda da miss che una protezione. Cos’è, dove va, chi l’aspetta? La pelle è di quel colore meraviglioso che presuppone un trucco accurato, ma io so che non c’è trucco, guardo questo colore che vorrei riprodurre quando lavoro con colori e pennelli, e che soltanto forse un Velazquez, o anche un Bacon a modo suo, sono riusciti a riportare. Nel procedere a 10 km/ora, mentre con un occhiata prevedo lo scatto senza frecce di quelli che vengono da destra, con un’altra continuo ad osservarla. S’innervosisce, non so se per il traffico o perché la guardo in questo modo (e però non riesco a smettere), comincia a torturarsi i capelli lisci biondo grano, li arrotola e li srotola. Sposta la Patrol verso sinistra come per sfuggire al mio specchietto, ma forse mitizzo l’influenza del mio sguardo, perchè dopo un po’, con normale inerzia da guidatore, si sposta verso il centro e la rivedo, adesso si tira i capelli, non un muscolo che si muove, non un’occhiata, ma i gesti dicono tutto, ed ecco finalmente la mia uscita, un lampo dei suoi occhi e poi lo sguardo dritto sull’asfalto della corsia di sorpasso.

Io freccio e la guardo passare, senza sentimenti, la vedo andare via verso un nonsodove della sua vita; un momento di bellezza fugace mi è stato dato questa mattina, tra le tante brutture…

Net to Be_again

Ridere mentre i denti un po' si arrotano...

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lunedì 11 ottobre 2004

8.17 a.m.

Mi trascino dal letto, cado quasi, sono troppo vicina al bordo, sento il pavimento freddo sotto le mani; dunque provo a rialzarmi ma la posizione è decisamente difficile, mica sono una ginnasta io, allora cado, una ginocchiata non eccessiva, le mani continuano a sentire il freddo delle marmette ed è allora forse che apro un occhio e poi l’altro il tempo e con l’intensità sufficienti per capire più o meno che sono sveglia e sono nella mia stanza, mi agrappo al bordo del comò e mi rialzo, resto in piedi-voilà.
Adesso il bagno. Fuori, ancora la notte. Sono sicura che nemmeno le strade ci sono, non le hanno ancora messe, c’è il nulla. No, non mi voglio guardare allo specchio. Sento il viso tirato ed una nebbia spessa sotto ogni occhio, e questa nebbia non va via con l’acqua+sapone, rimane abbarbicata là, ricordandomi che non devo fare stravizi, che non devo bere tanto caffè, che il vino bianco mi fa venire malditesta e tante altre amenità che sul momento rifiuto di sentirmi dire da me stessa. No, decisamente non mi piaccio, la bilancia interpellata risponde il solito peso, i capelli sono come tanti fildiferro a corona di medusa, la bocca spenta in un rictus che non saprei definire. Procediamo. Una doccia, no. Ho freddo. Pulizia dei denti, etc.
Tutti dormono. Vado verso la macchinetta del caffè, come Nicholas Cage in Via da Las Vegas. Eccola finalmente asciutta nello sgocciolatoio dei piatti. Tesoro mio, ecco, adesso posso aprire la porta di casa di Morfeo, e venire al mondo. Acqua e caffè e fuoco. Apro finalmente gli occhi. Quanto è amaro. E’ una punizione che mi infliggo per ieri sera. Anche i trebiscotti del discount sono una punizione. E non riesco ad alzarmi dalla sedia. L’orologio scandisce nel silenzio sempre lo stesso morse: vai, vai, vai. Due bacetti sulle guance ai dormienti, e la porta si chiude dietro me con il rumore rotondo delle buone porte di legno, niente a che vedere con le ultratecnologiche supercorazzate.

Mi duole il dito quando premo il bottone dell’ascensore. La città è schiacciata dalle nuvole. File interminabili. Lentamente mi sveglio nella guida, tra una frenata a 0 ed il graffiare lento della chitarra di Robert Cray; blues compagno, nascosto nel vano cassetta fino allo spegnimento del motore, fino alla timbratrice. Graffi di disamore o di un lieve ridere della sfortuna, delle mattine grigie, della routine.


mattina Posted by Hello

sabato 9 ottobre 2004

Tornando a casa

Mille macchine doppiano la curva dell’A24 che immette sul rettilineo dal quale si vede la città che si avvicina e si abbassa, luccicante come una immensa raffineria oltre la quale sembra ci sia il mare: un tuffo sempre nel cuore quando ritorno a quest’ora, quando Roma si copre di gioielli per il viaggiatore e soltanto per lui. Una leggera mano rosa di tramonto carezza Tivoli ed i suoi olivi centenari, e punta verso la tangenziale nera, lucida come il pelo di un grande animale sporco. Noi abitanti conosciamo la città così com’è sotto il trucco. Attraverso S. Giovanni, accoccolata sotto il suo S.Francesco, passo sotto la Porta che un tempo portava ad una campagna con-le-pecore, poi sventrata, macellata ed atomizzata in case e quartieri. Subito il centro, e subito il battere incessante del cuore clochard, che riposa tra una rovina ed un gatto, che dribbla un motorino, che inciampa sul sampietrino sempre divelto, imperfetto. Il rumore, questo parlarsi addosso delle città…. a Roma non c’è mai il silenzio assoluto. Vedo i turisti che chinati sulle mappe come su palle di vetro pensano e decidono a dove andare a cena, e controllano le guide e le strade come periscopi, parlottando tra loro a voce alta, per farsi notare. I vigili urbani lasciano gli accessi alla Zona a Traffico Limitato, e si infilano nelle loro punto biancheblù il cui motore romba come un gattone, attaccati subito al cellulare, sornioni. Ritardatari del sabato puntano verso Ikea per una cena svedese preconfezionata: tutta la Tuscolana è un ribollire di macchine. Attempate signore sole viaggiano in autobus senza mai scendere, per passare il tempo. I ragazzini che hanno giocato tutto il pomeriggio con biciclette e monopattini si vanno allontanando dal giardino condominiale.

Odore di gelato, di biscotto, di pizza appena sfornata….

QuantosseibbellaRoma...2


Arco di Costantino Posted by Hello

venerdì 8 ottobre 2004

Net to Be

Lo trovo sufficientemente sarcastico....
Qui il suo creatore: R:ob Grassilli

Se vi piace, andate a vedere il resto.

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La Rete come trappola

Una volta, i potenti, per sottomettere il popolo usavano la forza, le leggi e la religione; ora dispongono anche del calcio e della televisione – Carl William Brown (fonte)

Aggiungo che anche la Rete dà loro una mano. Possibile che ci sia tanta informazione e che tanti ci buttiamo a cercarla lì? Possibile che, come se fosse pubblicità, ci tenga a parecchi così tanto rintronati? Per questo bombardamento non vanno bene le armi dell’autoregolazione; nemmeno il livello più basso di senso critico ci resiste, e se poi è accompagnato da una curiosità inesauribile… Io ho bisogno di meno, ho bisogno di aver sempre meno bisogno di meno, e anche que questo bisogno si concretizzi: così come la mia televisione si è ridotta ad un soprammobile da 5,5 pollici che sta in cucina al pari della bilancia, come simbolismo di un taglio drastico dello stomaco che ormai può digerire quasi ogni cosa proposta in forma di immagine (e si sa, lo stomaco non ha sentimenti, senso critico, altri etc. dell’intelligenza), allo stesso modo i contenuti della rete dovrebbero essere resi un po’ più scarni. Escludo i “personalia”. Ma tutto quello che è pubblico e fruibile e dunque “autorizzato” sulla Rete mi sembra ugualmente progettato con lo scopo di bombardare, minare ed intontire né più né meno della Tv o del calcio: invasi di links, sovraffollati di opinioni e di rimandi, popolati di finestre, sempre più siti mi sembrano, in fondo, enormi Corviale, un cemento kilometrico che imbriglia anziché liberare…

giovedì 7 ottobre 2004

Riunione scolastica

Ieri pomeriggio alle 16.30 eravamo tutti lì, genitori della 5C, pronti a salire in classe (e ci sediamo sui banchetti dei piccoli, ci devo fare una fotoricordo, quanto siamo brutti, goffi e gobbi) avendo salutato i propri figli portati a casa dai nonni o zii o vicini. Alle 16.40 mi arrivano dei crampi intollerabili inguaribili da nessun buscopan, ed eccomi a correre per i corridoi alla ricerca di un andito adhoc utilie a lenire almeno il problema. All'inferno le cene speziate, un solo pezzetto del pollo supermarinato di Ikea, mi ero mangiata la mia insalatona... o erano le patatine precotte e prefritte alle quali non ho saputo resistere? La torta? Cosa cavolo ho mangiato?. Sparita e sofferente, con Giacomo che mi cerca al cellulare che squilla e bisogna cercarlo nella borsa, una sensazione di avvilimento che mi piglia soltanto in queste situazioni di miseria fisica (o in ospedale), vado finalmente su, bianca come un cencio, sto due minuti e ri-esco e ri-corro piegata in due, ritorno...

E se me ne andassi via, così, su due piedi, e non tornassi mai più?

mercoledì 6 ottobre 2004

Pagina aperta a caso

I sognatori sognano dal collo in su, con il corpo fermamente legato alla sedia elettrica. Immaginare un nuovo mondo significa viverlo quotidianamente: ogni pensiero, ogni sguardo, ogni passo, ogni gesto uccide e crea di nuovo, e la morte è sempre un passo avanti. Sputare sul passato non è sufficiente. Annunciare il futuro non è abbastanza. Dobbiamo agire come se il passato fosse morto ed il futuro fosse irrealizzabile. Dobbiamo agire come se il prossimo passo fosse l’ultimo, perché lo è realmente. Ogni passo in avanti è l’ultimo, e con lui muore un mondo, nel quale siamo compresi.

Henry Miller, Black Spring

Atti ripetuti

Non sopporto il denaro usato, spiaccicato, gravido delle mille mani per le quali è passato. Mi piace il denaro che odora di denaro. Non sopporto i bambini che rispondono al telefono, come in Aprile. Non ho niente da dire loro, nemmeno una parola. Non tollero le strette di mano in cui le mani sono obbrobriosamente sudate. C’è un profondo rifiuto in quella floscità che spesso le accompagna. Non mi piacciono le foto con la cornicetta bianca, limitate. L’immagine deve straripare. Non mi piacciono gli stra-ordinati, né le feste di compleanno, né i Natali cittadini, né le recite scolastiche. La normalità mi schiaccia. Mi danno il nervoso, ma taccio e li cancello mentalmente con un tratto rosso, quelli che non sanno ascoltare, che mi parlano addosso mentre sto finendo un ragionamento. Silenzio, mi dico, dico loro. Siete dei violenti.

Rigida, egocentrica, lo so; prepotente, pretenziosa, insopportabile.

martedì 5 ottobre 2004

Tiburtina Valley

Il mio viaggio di tutte le mattine verso il lavoro ha pochissime varianti. Il colore del cielo, se il sole illumina impietoso o mite impolvera d’oro, il rumore del vento, un sussultare per le tante moto che mi passano accanto, ridere per una battuta alla radio. Ma all’uscita del raccordo mi aspetta la fila gigantesca dell’uscita, lo smistamento verso tutte le fabbriche le uffici di cui la Tiburtina rigurgita. In questo camminare da lumache mi distraggo da tutto per guardare le facce di quelli che mi incrociano, di quelli che camminano sugli insicuri bordi della strada. E vorrei fermare il tempo ed il traffico come in quel racconto di Cortázar, e conoscere i perché, i come, i dove di tutti: una ragazzina di perfetto profilo greco e grandi occhi da cerbiatta che guida una cinquecento rosso fuoco mentre sente musica con le cuffie; i camionisti svegli da chissà quanto e si vede negli occhi la stanchezza; i prepotenti manager nelle loro macchine, aggressive, costose, d’apparato; i piccoli trasportisti nei loro furgoncini, già alla sesta sigaretta, che smaniano per uscire dall’ingorgo; i motociclisti a zigzag che mi guardano straniti, schiacciati dentro il casco, mentre sposto la macchina per farli passare; i vigili urbani olimpici nei loro gesti da istruttore di bambini - perdiqua, perdiquapiùvelocemente; prego, a signo’, cchevolemofa’?– le loro divise indossate di corsa, storte, e nei bordi delle labbra il profumo del caffé preso da poco.

Derelitti nelle mattine di autunno, andiamo, senza poter altro che subire, non introiettare, non condividere, il cambiamento strepitoso dei cieli e dell’aria, ed il nostro, continuo. Con quanta supponenza girano le nuvole!

La diga

Una crepa leggera insidia un lato della diga. Cadono poche gocce alla volta, lacrime dell'istinto, che parlano di addii; prima lentamente, distratte, le lacrime colano e spariscono assorbite dalle interne pelli di difesa; poi, mentre fuori piove e piove, mentre la diga si riempie ogni volta di più di cose belle, la crepa s'ingrandisce, ma di poco, e da lì scorre via la bellezza di un rapporto umano, torna di nuovo alla terra, all'innominato nulla da dove un giorno uscì per poi fiorire. Vedo che questo succede, vedo andar via questo mio sangue-di-due, lentamente.

Piano piano dimentico che ho amato, come ho amato, perché. Piano piano come una foglia navigo lontana dalla diga, senza sentire più.

venerdì 1 ottobre 2004

Una citazione

“Io vivo con più solitudine di quanta ho vissuto in tutta la mia vita. Solitudine e più solitudine ancora. Soltanto una gioia segreta mi rende deciso: non ho causato dolore, nessuno ha sofferto per causa mia. In tutta la mia vita ho mantenuto una delicatezza estrema, una certa quantità di dolore che mi fu attribuita dal destino, l’ho masticata nel succedersi dei miei giorni.”

José Lezama Lima, Lettere