giovedì 30 settembre 2004

Non sono stata mai forte in matematica

Io dico 3, e tu rispondi 5. Rilancio 7, con un punto interrogativo, ed ecco una risposta da 13 o 14, secondo l’umore. Poi, un silenzio, un segno d’infinito. Allora tu parti con un bel 5+10+23+5? E poi, senza lasciarmi rispondere, ecco qualcosa che non ho ben capito, tra parentesi, sussurrata alla cornetta per non farti sentire. Ahia, lì comincio a mordere la matita, il tempo passa, l’esame sta per finire. Io vado e dico ancora, 2. E te, via con 23456, qualche integrale di sospiro, una frazione nell’insostenibilità del pomeriggio. Irrisolvibile. Rispondo con qualche divisione a mente, ed un piccolo resto, un bacio appeso alla sfilza dei numeri. Ma tu elevi a potenza. Eccomi trasformata. Non posso fare altro che esprimere un segno uguale.

E lì, tra gli apostrofi sospesi dall’attaccare il telefono, sono rimaste tutte le indefinite variabili.

mercoledì 29 settembre 2004

Un pensiero

Comunicare non sempre serve ad avere le informazioni necessarie per continuare.

QuantosseibbellaRoma....


Bancarella Posted by Hello

martedì 28 settembre 2004

Le cose inutili

Mi cercano, mi offrono di tutto. Rispettando la distanza della fame o della cultura, nulla di diverso dai mendicanti di Calcutta, dai bambini in nugolo che assaliscono il ricco viaggiatore intralciato dal proprio status, dai negozianti che si accompagnano a noi e ci si vogliono fare tutti complici. La buca delle lettere, il davanzale della guardiola del portiere, il banco del bar, l’affollato tavolo dove il proprietario del garage fa i suoi conti; all’entrata della metro, su distributori messi apposta nelle stazioni, alle porte delle scuole; per radio, giusto quando avevo appena finito di sentire una canzone preferita, al telefono, mentre ascolto Miles Davis…. Tutto mi è necessario. Come farei senza? E’ tutto gratis; chiama, scrivi, invia un sms, inoltra questa pagina ad un amico. Ti diamo una valigetta con tutti i dépliant dentro. Veniamo noi da te, con la targhetta appuntata sul bavero della giacca, come i predicatori.

E io, che voglio soltanto non smettere mai di essere abbracciata?

lunedì 27 settembre 2004

Paseggiando

Io sono curiosa. Osservo le persone che mi stanno accanto nei bar, lo sguardo va sullo specchio nel fondo; mentre guardo sento, insieme, l’amarezza ed il profumo del caffè, i suoi corpi grassi che si espandono nella bocca. Guardo come una signora spezza un cornetto, come un’altra impugna il telefonino: lo scambio di gesti tra la cassiera ed i baristi, i brevi lampi degli occhi, la mimica delle mani. Per anni ho sentito innumerevoli parole, per anni ho ascoltato e dimenticato centinaia di conversazioni, detto ciao e addio a migliaia di persone. Non capivo niente. Adesso, libera nella mia solitudine, mimetizzata da certi segnali sociali, posso lasciare scorrere il mio sguardo sulle cose, lasciar fluire le parole ed i gesti dentro me come un fiume. E persino nei giorni in cui non ho da vedere nulla di bello, perché i miei occhi sono oscurati da un qualunque dolore di qualunque misura, anche lì i gesti degli altri mi sorprendono, mi insegnano.

Io so ascoltare. Ho sempre davanti a me le persone insieme intere e fluttuanti, definite ed olografiche. L’inflessione delle loro voci, o come la luce gioca sulla loro pelle. Quando cantano, quando urlano, la loro paura. Adesso il mio silenzio è dono, so che è un cerotto nel rumore assoluto delle nostre giornate.

Io conservo. Un valore infinito hanno le frasi compiute o troncate. Le emozioni vengono raccolte come gioielli. Raccogliere la fragilità di un tempo dell’altro, scappato dal controllo dei sensi, qualcosa di cui, nelle ore che seguono alla confidenza fisica, quasi quasi ci si pente. E io tengo ciò in me, comme un trait d’union tra io e l’altro, più forte della complicità.

domenica 26 settembre 2004

Una poesia

E se qualcuno parlasse
dei piccoli segni che lascio
qualcuno che volesse come me
capire sempre i gesti o gli sguardi
ci diremmo
come gli innamorati giovani
la nostra nostalgia
fatta d’immagini
di occhi bassi mentre guardiamo
in che modo le nostre due mani si tengono
l’una con l’altra.

sabato 25 settembre 2004

In cucina

Sabato molto ventoso, freddo. Sbuffa la pentola a pressione. Il frigo fa le fusa, congela lentamente un filetto di persico che ho messo nel freezer. Una montagnina di bel riso parboiled, in quel suo giallo trasparente banale, sta come un vulcano sul preparato per risotto di mare, ormai bello ammorbidito. Poi una spruzzata di prezzemolo. Due mestolate di acqua e portare a bollitura. La cucina è il regno dei fumi e degli odori. Anche delle notti calme passate a scrivere o a tradurre oppure sulla sdraio a vedere vecchi film. Mi impressiona comunque sempre il crescere delle sensazioni, prima soltanto rumori e poi odori e poi arriva l’acquolina in bocca e tutto si amalgama sul piatto, un definitivo punto e a capo della giornata. In quel momento, a pranzo, mi sembra che la casa - oggi piena di stracci e prodotti chimici, un turbine di grandi pulizie - si riprenda il ruolo di protettrice fisica, conchiglia che protegge la creatività in tanti modi espressa.

giovedì 23 settembre 2004

Malattia

L'influenza stronca anche gli scribacchini. Sono dolorante e la mia pressione sta nei profondi antipodi di ogni possibile situazione di buona salute. Persino scrivere è faticoso, come se fosse la prima volta che tocco una tastiera e non riuscissi automaticamente a dosare la pressione sui tasti.

Tutto ciò passerà.

mercoledì 22 settembre 2004

Traducendo

Mi dico addio, poi mi ci avvicino e mi carezzo il viso, poi me ne allontano e mi guardo andare via, poi ritorno per un ultimo abbraccio, poi mi dico addio. Dietro, le note dei Preludi martellano abiette la mia schiena, hanno dei invisibili gancetti che mi strappano a pezzetti la pelle, tutto in carne viva, un disastro emotivo, un crollo delle torri interiori simbolo della mia potenza serena. Sono spinta furiosamente da questo pianoforte verso il nonsisadove prodotto da un’assenza, sono la penitente di un tempo bianco, di un silenzio pieno di cose possibili - come disse Kandinsky - dove vado e vengo, insicura nel dolore quanto nell’abbraccio. E continuo a tradurre senza sosta, ripetendo nella tastiera gli impazienti gesti, gli automatici gesti dell’interscambio vita-soldi. Avanti, avanti, avanti e poi vai via, VIA! Ok vado, un attimo solo, mi butto nel pozzo, un dolore inaudito dentro il cuore, ed è sempre così mi dico, sempresempre.

La mia immagine mi guarda dalla bocca del pozzo, mentre il cielo scorre, mentre la vita scorre.
E mi butta la corona di spine.

domenica 19 settembre 2004

Concerto per strada

Io osservo. La gente passa e passa ininterrotta. Sono come le foglie d’autunno che svolazzano; alcune si fermano un attimo a terra, si abbandonano agli odori forti del bosco. Ecco magliette aderenti e tacchi a spillo, corpi un po’ troppo grassi inguianati di velluti e signore secche, dai capelli tinti di biondo, con al braccio un manichino; ecco tante giacche classiche su camicie celesti e pantaloni dritti, ecco la parafernalia mix dei ragazzi a vita bassa, con il loro trillar di cellulari, ecco gli stranieri che lasciano davanti al gruppo di suonatori gli occhi sommessi e sorpresi dell’alterità che si portano dietro. Malseduta sul bordo di un’aiuola - ah, sgradevole città dove bisogna sempre camminare come in un cerchio infernale – mentre leggo attenta e distratta un libretto, apro uno due canali e tiro su i tasti, entrano nel nastro interno le note della fisarmonica, e quelle ditate del basso come colpi di tamburo. Sotto i tubi-innocenti, le tre scarne figure, la figura del cantante agitato in una compressa fiamma nera, un sorriso troppo grande per il viso. Canta in francese, in ottimo francese, una canzone di Brel. Qualcuno gli ha chiesto, prima, chi è Brel, e mi chiedo quante volte innocenti ignoranti di Brel gliel’hanno chiesto. Serafico-arreso, risponde parole non appassionate – e come si può, trattandosi di Brel? Ma i musicisti di strada sanno essere misurati, danno le piste ai diplomatici - e poi parte come un maglio da coltelli. Oh, dategli un palco, penso. Grande come un mare di propria misura, portatile. Quando il concerto finisce, per autonoma secessione dei musicisti, distaccati dal resto ormai da due canzoni, me ne vado, scivolando giù, i miei passi accordati all’orologio che marca l’avvicinarsi inesorabile del sedile dell’autobus.

Poi le strade illuminate gialle, vuote, vestiti abbandonati nella campana del riciclo della notte. Canto…

sabato 18 settembre 2004

Come tante altre cose

Avevo due anni o tre o quattro. Bill Evans registrava. Seduto, chinato sul suo pianoforte, mentre io balbuziavo le prime frasi, lui costruiva quelle architetture dell’emozione che molti come me portano oggi cucite, come tante altre cose, in un luogo qualunque della mente. Da lì quelle dita carezzevoli che, nello stesso tempo in cui io, in un altro paese, mangiavo o mi fermavo per strada a prendere un pezzo di qualunque carta piena di lettere - perché volevo leggere tutto già allora – sapevano essere silenziose o luminose, con il loro corteo di note sfiorate appena dalla batteria e dal basso, mi vengono a cercare. Mentre le risento penso che ora, come sempre, tutti noi facciamo cose insieme, nello stesso momento. E mi dico senza falsa modestia che se qualcosa di quel che io scrivo rimane, se qualcuno se lo porta via nel suo vissuto, lo conserva - come tante altre cose, in un luogo qualunque della mente - e da lì ogni tanto si alimenta, allora anch’io ho fatto parte della storia, non sono stata sprecata, ho dato anch’io.

La lettera

Prima la leggo di un botto, poi la rileggo, poi la rileggo ancora.
In questi giorni, aspettavo, pregavo, anelavo.
Mentre guidavo pensavo: basta una sua parola.
Perché c’eravamo detti addio senza alcun tipo di convenevoli, null’altro che addio e fu un addio vero.
Mentre scoprivo che all’Auditorium quest’anno c’è anche Holst, pensavo: basta una sua parola.
Perché raramente nella vita ci si avvicina alla linea assoluta tra il reale e l’impossibile, una volta soltanto ho toccato quella linea, e fu lì, dentro di me l’insostenibile, ed ero piena di vergogna e di colpa, per non averlo amato ancora ed ancora, tanto che poi sono fuggita per 15 anni.
Mentre cercavo per tutti i miei libri di poesia qualcosa da scrivere un giorno e che lui capisse, capisse che era per lui, pensavo: basta una sua parola.
Eppure io lo sapevo che un giorno avrei ritoccato le sue parole e rivisto quell’espressione insieme di dolcezza e di rassegnazione. E dunque adesso mi struggo nello scoprire che la mia immagine preferita della calma necessaria è la stessa che conservava lui.

Pensavo, e poi smettevo di pensare dalla insostenibile, inaspettata felicità.

giovedì 16 settembre 2004

Casualmente

Pensare al posto dove dovrei andare per aspettare il tempo sufficiente per vederti casualmente passare. Guardare in tutte le macchine. Raffigurarmi l’angolo, il semaforo, la fermata dell’autobus, la vetrina di negozio, la pizzeria a taglio da dove uscire proprio in quel momento, il bar dove trovarti per caso. Raffigurarmi gli occhi, il sorriso, il camminare un po’ da papera, i riflessi della luce sui tuoi occhiali. Immaginare che mi passi davanti da solo, in moto, in macchina, con una donna, con amici, con un piccolo per mano, con il cane a passeggio, con la spesa, con la mamma. Immaginare tutto tranne le parole, tanto quelle sono sempre altre, diverse.

E invece, solitudine. Come chi cammina accanto ad una parete bianca per km.

Settembre

Ad un certo punto, arriva un pomeriggio di settembre, capita per caso che sto per strada ad ora tarda, sto tornando a casa, ed è come se mi svegliassi: è già tramonto, le luci dei negozi sono accese. E poi piove, tutte le strade sono lucidate, c’è una calma strana prima dell’ora di cena, tutto sembra sospeso. “Ma no, è così tardi?”, mi dico. Poi guardo l’ora sul cellulare. Ecco, sono soltanto le sette e mezza ed è già notte, quasi. L’estate è finita e finalmente me ne rendo conto. Punto e a capo.

mercoledì 15 settembre 2004

Viaggiare, guardare i treni

Vengono avanti delle nuvole a forma di grosse pallottole, sulla stazione, sfilacciate, non minacciose, buffe. Una batteria che avanza. I treni, oggi giorno di sciopero, sembran distratti, la loro velocità è sfuggita ai cartelloni asciutti, superautomatici. A malapena essi, umiliati, riescono a indicare l’ora prevista, l’ora effettiva di arrivo, o di partenza, che puntualmente i macchinisti sornioni, tra un semaforo e una chiacchierata, le smentiscono. Dentro il treno i cellulari sfogano l’ansia. Valigie scese dai loro loculi molte stazioni prima della destinazione occupano i corridoi. Un pomeriggio ventoso, un sole che non vuole mollare la pelle nemmeno un secondo e il tanfo di tutte le stazioni accolgono gli spiegazzati che raccontano a tutti quanto è stata allucinante la loro traversata...

Io, io, scendo e riprendo un altro treno che va da un'altra parte e mi viene voglia di restare in questo limbo temporale e prendere altri treni, andare da altre parti, finchè avrò fame, o voglia di fare autostop, o freddo.

martedì 14 settembre 2004

In banca

Ho firmato. Ho firmato tutto. Carte e carte. Un senso di vertigine. E il mio nome, come al solito, con il cognome sbagliato. Il direttore ha ricominciato a scriverlo su un foglio dei tanti da firmare, talmente male che non ho resistito: "Vorrei che fosse scritto correttamente, per favore" Nessuna supplica. Inflessibile.
Il direttore un po' grasso, sudato, ma non brutto. Si ferma un paio di secondi e poi rompe il foglio che ha cominciato con il bel roller nero con cui fa queste cose; oggi già fatte diverse pratiche come la nostra. Prende un altro dall'armadietto, ricomincia il tutto, fa attenzione, scrive tutto bene, le cifre, i cognomi. Firmiamo con una finta MontBlanc il cui tatto mi fa venire la pelle d'oca (le vere Montblanc hanno un tatto incopiabile), ci metto pure due firme in più nella scheda riconoscimento firme, la firma legale, quella con il secondo nome abbreviato, quella più veloce, un solo nome ed un solo cognome. Finisce tutto. Grappette, saluti, stretta di mano (tutto sommato non floscia, non sembra totalmente quello che giudico di solito di tutti i bancari), chiedo un bigliettino da visita, di quelli che sicuramente lui odia, con il marchietto della banca.
Ho freddo, ho freddo, un buco allo stomaco. Vado a farmi un caffé al baretto preferito vicino alla scuola, dove anche il caffé decaffeinato è quasi sublime di buono (o forse mi piacciono i due baristi, boh). Chiacchiere sulle orde di mamme che stanno per calare giovedì prossimo a farsi cappuccini e cornetti ristoratori dopo aver portato i bimbi a scuola. Mi autoregalo caramelle al tè verde, della Leone, un pegno ai ricordi di quando ero qui per la prima volta, e le compravo perchè erano tra le poche cose che mi portevo permettere facendo la babysitter di due mocciosi insopportabili.
Uffa. Passerà anche questa, mi dico come sempre.
Passerà?

lunedì 13 settembre 2004

Gelosia

Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l'altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri.
Roland Barthes

Disse Rossella

Il momento peggiore per le emozioni è la notte. Arrivo all’ora di andare a letto a leggere, con in sottofondo pensieri della giornata a raffica, e anche di quel che sta succedendo lì, in quel momento, rumore di televisioni, la sensazione di fresco e di fine dell’estate, insomma, tento di rappacificarmi con le varie me-stessa, spostare tutte quante le sensazioni disturbatorie dalla lettura e mandare tutto a Morfeo, ma questi giorni sono proprio di disintossicazione emotiva. Guardo il cellulare, muto come un pesce morto. Una conversazione tra la bambina e la domina.
“Mandagli un messaggio”
“Ma non ho niente da dire, non ne ho più voglia, scrivesse lui”
“Lui non te ne manda, avvia”
“Macché, poi non risponde, come se ce l’avesse spento o stesse investendo energia comunicativa con altri/e – gelosa -, ci resto male”
“Allora lascia stare, non puoi avere le risposte che cerchi, hai impostato così e abbozzi. Troppo vuoi. La realtà è altra”
“Ok, ma ci sto male lo stesso, le emozioni e la ragione non vanno per le stesse strade. La realtà è la mia”
“Allora scrivi, digli che lo pensi”
“Ma no, non ho niente da dire, non più le emozioni, visto che non risponde e non scrive. E poi sono stanca”
“Allora spegnilo il cellulare”
“Beh, questo si può fare”
Spengo. Con un senso di angoscia. Dieci minuti dopo lo riaccendo.
“Ma no, sei cocciuta, lo sai, non ci sarà niente. Non lo senti più l’istinto. Lo sai benissimo”
“E vabbé, lo spengo.”
And so on.
Va avanti così, con le sue variazioni, fino in mezzo a Céline che mi assorbe e mi tocca rileggermelo, pronta la matita e infastidita da queste mosche intorno all’attenzione, che vorrei tutta per lo scrittore, o piuttosto per il traduttore, che sotto sotto ha scritto sulle righe dello scrittore un suo libro da gemello. Dopo un po’ mi fermo, alzo gli occhi, m’incazzo forte, urlo dentro, lascio il libro, voglio dormire, ma niente.
Finalmente arriva in mio aiuto Rossella O’Hara: domani, domani è un altro giorno…
La notte rimane un brutto momento in cui piango tutta la mia infelicità con i modi aristocraticamente intellettuali che dà l’esperienza, la conoscenza di me stessa e la spietatezza del maratoneta. Passerà, mi dico; o evolverà, ma passerà.