Tiburtina Valley
Il mio viaggio di tutte le mattine verso il lavoro ha pochissime varianti. Il colore del cielo, se il sole illumina impietoso o mite impolvera d’oro, il rumore del vento, un sussultare per le tante moto che mi passano accanto, ridere per una battuta alla radio. Ma all’uscita del raccordo mi aspetta la fila gigantesca dell’uscita, lo smistamento verso tutte le fabbriche le uffici di cui la Tiburtina rigurgita. In questo camminare da lumache mi distraggo da tutto per guardare le facce di quelli che mi incrociano, di quelli che camminano sugli insicuri bordi della strada. E vorrei fermare il tempo ed il traffico come in quel racconto di Cortázar, e conoscere i perché, i come, i dove di tutti: una ragazzina di perfetto profilo greco e grandi occhi da cerbiatta che guida una cinquecento rosso fuoco mentre sente musica con le cuffie; i camionisti svegli da chissà quanto e si vede negli occhi la stanchezza; i prepotenti manager nelle loro macchine, aggressive, costose, d’apparato; i piccoli trasportisti nei loro furgoncini, già alla sesta sigaretta, che smaniano per uscire dall’ingorgo; i motociclisti a zigzag che mi guardano straniti, schiacciati dentro il casco, mentre sposto la macchina per farli passare; i vigili urbani olimpici nei loro gesti da istruttore di bambini - perdiqua, perdiquapiùvelocemente; prego, a signo’, cchevolemofa’?– le loro divise indossate di corsa, storte, e nei bordi delle labbra il profumo del caffé preso da poco.Derelitti nelle mattine di autunno, andiamo, senza poter altro che subire, non introiettare, non condividere, il cambiamento strepitoso dei cieli e dell’aria, ed il nostro, continuo. Con quanta supponenza girano le nuvole!
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