martedì 30 novembre 2004

Mangiare con gli occhi_1


Brodo di verdura Posted by Hello



Polpette per cena Posted by Hello

Io farei l'abbonamento al letto

Quando a Roma piove, si diceva un tempo, tutto si ferma. Bastano du’ gocce!! E invece no. Certo, siamo scocciati, gli incroci si riempiono come calzoni meccaplastici, i pizzardoni si nascondono, i pedoni diventano una variabile aleatoria dello stress, i motorini sono ancora più guizzanti del solito ed il piede sinistro diventa una leva freno-frizione, l’acqua ci spia dalle pozzanghere e ci attacca alle caviglie. Ci si ferma soltanto nel proprio spleen. Questa mattina Omar mi ha portato lo squalo fuori dal garage e appena ho attaccato il frontalino ed è partito il Chopin di questi giorni ho subito sentito un interno digrignare. Ho tolto tutto ed attaccato m2o, l’elettroshock delle mattine nere e di pioggia. Il cielo è diviso - dopo uno dei tanti acquazzoni – come un tramezzino: grigionerogiallastro, bianchiccio, grigioblucobalto attraversato da strisce di lontani lampi. Imbottigliata e martellata dai bassi del dj, guardo lo scorrere delle strisce ed il mutare dei colori. Si stanno compattando, gareggiano nel formare un finto, scurissimo pomeriggio. Sotto la tangenziale in cui la fila è semiferma i treni vanno come tanti nastri di ginnaste d’artistica: verdi, rossi e bianchi, pesante grigio, motrice che schizza. Addio bel SanLorenzo addormentato, là sotto.

Una me si muove incessantemente, un effetto videoclip di rallentamento e velocizzazione di braccia e gambe, sotto il ritmo ipnotico-techno-pogo. Nella stradina di acceso bordata di olivi, dove tante volte ho camminato, striscio le pozzanghere senza osare mettere la ruota per più di venti centimetri, alzando una mini onda che sbatte sulle murate della macchina. Fluire, fluire, dicono le percussioni. Poi una strisciata magnetica, l’orario che si stampa, accendo il mio chip al neon: io, robot…

lunedì 29 novembre 2004

Avanti suonatori... entusiasti

Avevamo una professoressa di musica, alle medie. Così si usava in Spagna, e credo che fu l’ultimo ciclo o quasi in cui qualcuno insegnava a ragazzi e ragazze a misurare il ritmo, a capire la costruzione di una sonata, a comprendere Schönberg e Stravinsky. Era severa, secca, implaccabile con noi pecorelle folli di 11-14 anni. Nei pomeriggi d’inverno, nel buio eternamente sottolineato dalla cruda luce dei fluorescenti e da una pioggia incessante, sentivamo in assoluto silenzio e con ordine cronologico maniacale un bel po’ della musica cosiddetta classica, imparavamo a cantare a più voci, cos’era la dodecafonia ed il romanticismo. Un giorno di molti anni dopo, andai a trovarla in casa sua, non ricordo perché. Nel grande salone regnava un pianoforte a coda, che avrei voluto, che vorrei ancora, suonare, saper suonare. Da allora, tutte le volte che vado a sentire un concerto, specialmente di pianoforte, la ricordo, la omaggio silenziosamente, perché ha fatto crescere in me amore e conoscenza per la bellezza della musica, di TUTTA la musica, dal gregoriano fino all’hiphop.

Il 2 dicembre alle 21, l’Orchestra del Conservatorio di Sta Cecilia, tiene un concerto all’Auditorium, con il seguente programma:
R. Wagner: Rienzi - Overture
L. Cherubini: Messa Solenne in Do Maggiore, per soli, coro ed orchestra (Prima esecuzione a Roma)
G. Petrassi Coro di Morti - Madrigale drammatico per voci maschili - tre pianoforti - ottoni - contrabbassi e percussione (nel centenario della nascita dell'autore)

Considerato che i posti ormai sono ridotti all’osso (bisogna andare a prenderlo direttamente all’Auditorium, non è in vendita nelle ricevitorie; andate), che il biglietto non è costoso come per i concerti ufficiali, e che indubbiamente loro suoneranno meravigliosamente, giacché la musica è per loro “croce e delizia al cor”, questo è un appello: accorrete, sentite ed applaudite. Io ci sarò.

sabato 27 novembre 2004

Una citazione

D’altra parte, mi piacciono soltanto le confessioni, e gli autori di confessioni scrivono soprattutto per non rivelarsi, per non dire nulla di quello che sanno. Quando stanno per sputare il rospo, è il momento di diffidare, stanno truccando il cadavere.

Albert Camus, La Chute, libera traduzione.

Una coltre di neve sul cuore

E’ notte. Giro per via Principe Amedeo. Nello stesso momento in cui il semaforo diventa verde una luce, da una finestra del palazzo di fronte, si spegne. Scivolo sulla tangenziale. Un treno mi passa accanto, vedo i puntini di sospensione illuminati delle finestre in rapida succesione. Nulla mi può salvare. Sono a ripetere il copione: in mezzo alla città in una giornata di pioggia, con lo stesso Notturno a modo di epitaffio. Quando prendo la cassetta di Rubinstein dallo scaffale so di star vomitando, le lacrime vengono da sole senza sforzo; il fuori della città ridotto a luci e nero della notte, ma guidare mi calma, è catartico. VignaClara, le case dai lunghi balconi, carezzate dagli alberi. Le rampe di Viale Bruno Buozzi, così morbide. Il caos di Viale Giulio Cesare sotto la pioggia. Ovunque.

Inutile negarlo. La sofferenza si presenta subito dall’inizio dietro un piatto allettante, chessòio, l’emotivo che associo al pane e salmone affumicato. Io la vedo benissimo dietro le promesse e le gioie e le risate. Ma bramo mangiare, prima una briciola, poi un boccone, poi siamo alla rosetta burro e salmone, puro Gargantua. Passa il tempo ed io ne sento sempre di più il sapore, da una parte la bocca si riempie, dall’altra mi si stringono le pareti dello stomaco, a poco a poco non riesco più a mangiare, non entra più una briciola, sento che non è più un pasto, è La Grande Bouffe, io mangio e mangio ancora e so che sta per finire tutto.

E nei momenti di lenta discesa mi tengo nelle mani; solo chi ha perduto conosce la consolazione, la conoscenza del dolore che è anche saggezza...

giovedì 25 novembre 2004

Degas a Roma, una mostra minore

Ieri ci sono andata, ed non mi ha fatto altro effetto che confermare un mio giudizio severo sulle mostre a Roma: si prende un grande nome, si fa un bel battage pubblicitario, e la gente accorre. Abbiamo introiettato così bene l’effetto pavloviano della pubblicità, che nemmeno l’arte ne è risparmiato. Il prezzo del biglietto è proibitivo per i comuni mortali e dunque voglio prevedere che ci sarà roba che merita un tale esborso, più costoso dell’entrata al Louvre. Invece no. E’ l’ennesima mostra non per il pubblico, ma per gli addetti ai lavori, fatta eccezione per dieci o dodici pezzi che lasciano senza fiato per l’indiscutibile, pignola maestria. Tutto il resto, prove e disegni, I e II stati di incisioni complesse con uso di diverse tecniche sconosciute ai più, sculture di cui la maggior parte sono prove, roba che nemmeno gli studenti di Belle Arti avrebbero il coraggio di mostrare, ma che la morte del sommo artista (e che sia sommo è innegabile) rende di valore. Certo, posso sempre spiegare alle mie amiche che le difficoltà della vista non hanno impedito il dominio delle luci, l’amore per le spalle delle ballerine, l’uso di colori forti nei piccoli dettagli (scialli, fiocchi, ventagli), calamita degli occhi in quadri cui lo sfondo è quasi uniforme; ciò non toglie che davanti agli appunti di figure e piedi di ballerine, di cui forse solo uno è corretto e lo direbbe qualunque professore di disegno, rimangano allibite, smarrite, e non ci sia nulla da eccepire. Il pubblico ascolta la guida ma io so che nulla rimane, non s’introietta l’artista davanti ai pezzi minori di una produzione cui gli organizzatori di mostre non possono accedere, ed è per questo che ci propinano le briciole.

Invece difendo le piccole mostre, come quella di De Nittis (contemporaneo di Degas, ma chiamarlo impressionista è riduttivo), al Chiostro del Bramante, dove la bravura del pittore c’è tutta, dove c’è da ammirare il dominio del colore e delle luci, la resa degli oggetti più difficili, il superamento della difficoltà indiscutibile dell’uso dei bianchi in pittura. Inoltre la scelta è fatta di pezzi “maggiori” collocati nel loro momento culturale (persino i disegni liberi vanno dentro al libro originale) insieme ai testi scritti dagli amici che descrivono e spiegano un ambiente, un momento storico, situazione imprescindibile per “imparare” in una qualunque mostra. Roma rimane una città minore, quanto all’insegnamento dell’arte attraverso le mostre. Andate a vedere le chiese, i musei minori; come tutto apprendimento, richiede pazienza e costanza, ma ripaga. Ed evitate accuratamente i nomi ridondanti.

martedì 23 novembre 2004

L'uso delle virgole

Qualche macchina mi ha voluto fare o una fiancata o l’altra, stamattina, avevano voglia di stringermi, forse; un po’ più veloci e saremo stati una pallida copia della Squadra. Li guardavo con occhi assassini, ma capisco: è il nastro di nebbia che stringe la città. I venditori di giornali sulle strade annunciavano e concedevano le copie come altrettanti pezzi di pizza, appoggiati sul palmo come per non far colare il sugo; con mollezza. Persino Omar mi ha dovuto tirar fuori lui la macchina, per mia manifesta inadattezza alle manovre, di mattina presto. “Se carichi tutto avanti esci” e io stavo andando là, poi mi sono vista e ho detto: “ti prego, portala fuori tu”. Mi ha guardato un solo secondo e poi le spalle gli si sono arrese, ah ‘ste donne occidentali, e con un solo colpo di volante è uscito lo squalo. E’ anche la disfatta del caffè. Guardo il bicchiere marrone che sputa l’inumana macchinetta e dico, quale padrone di schiavi: “Non sei imprescindibile, non sei nemmeno necessario”. E non mi viene voglia di partire: in fondo agli occhi c’è una murata grigiobianca come una maglietta vecchia che lavi e rilavi e viene sempre uguale in barba alla pubblicità. Meglio continuare a guardare dal ponte della mia nave che staziona sulla Città Eterna, con il capitano in ferma perpetua e i marinai dispersi, ormai perduti per sempre, che girano inebetiti ubriacandosi di sensazioni. Meglio sentire gli occhi, gonfi dal sonno inquieto, nel loro vagare verso la finestra e allo schermo e poi di nuovo verso la finestra, a guardare la tavolozza degli alberi, il traffico dei passeri, delle nuvole e delle cornacchie. Meglio sentire il peso delle piccole pause, conservare queste virgole nelle tasche, per i giorni di affanno che stanno arrivando..

lunedì 22 novembre 2004

Una poesia

Un clarinetto
qualcosa che mi guaisce sulle cosce
me le riempie di sabbia
cado
mangiami oh mare di acqua di sale
riducimi
spettinata dentro, devastata
come quando un telefono suona
all’alba
perché qualcuno mi dica addio lentamente, scegliendo
le parole di un’altra

venerdì 19 novembre 2004

Detto ciò,

me ne vado a sentire Christian Zacharias che suona Chopin e Liszt all'Auditorium. Bonsoir à tous!

IMBB#7 - Piatti delle feste, chez Vesnuccia

Il fischio della pentola a pressione. Accompagna perfettamente la mattina decembrina, il giorno dopo, il lieve 25 in cui tutto è, evangelicamente parlando, compiuto. Se mi affaccio alla finestra dai vetri annebbiati vedo guizzare, 7 piani sotto, l’acciaio dei riflessi che la pioggia incessante lascia nelle pozzanghere. E sento soltanto il fischio, nel silenzio della casa, perché io sono la seconda ad alzarsi sempre, in questo giorno, perché è presto. I miei passi felpati, l’occhiata furtiva alla cucina, cammino del bagno: gemelli dei capelli e della lassità di una notte di rifugio sotto le coperte, i resti colorati del taglio delle verdure sono abbandonati momentaneamente in un angolo del tavolo pieghevole, di formica. Mamma rigoverna qualcosa, le mani dentro l’acquaio, concentrata. La valvola della pentola balla con un ritmo banale, e lentamente da quell’unico spiraglio del vapore cominciano a sprigionarsi i potenti odori del brodo: la rotondità della carne, l’eleganza del porro, la durezza dell’osso, la cremosità dei ceci. Torno a letto, dormicchio, odoro, dormicchio fino a che il fischio annuncia che il brodo è fatto. Vado di corsa a vedere le trippe della pentola, che nuotano nell’oro, e mi appannano gli occhiali. Mamma scola, trita, frigge, m’impedisce di mangiucchiare la carne che si stacca in lunghi filamenti di muscolo e poi si scioglie in bocca come fosse filetto, o una caramella di prosciutto. Tutto va al vassoio bianco.

Dopo, liberato dal grasso e dal freddo del frigo, il brodo pullula di fideos, che si dan di gomitate con i ceci, e bolle nella pentola profumando la cucina e saturandolo tutto dell’insostenibile fame che ormai ci rende avidi. Ci avventiamo sui piatti, in religioso silenzio. E’ dopo, giù di pane sul tocino, quando c’è, oppure cannibaleschi morsi ai rellenos. Spazzoliamo quasi tutto. Caffè, torroni, uva di Malaga, fichi. E poi dormire, per permettere al tempo di incorporarci dentro cotanta perfezione dei sensi….

E dunque, per quattro:

300 gr. di muscolo di vitellone, oppure 150 di muscolo e 150 di carne sottocostole (il macellaio ve la dissossa)
¼ di buona gallina
un osso di ginocchio oppure, per chi non ha problemi con il grasso, un pezzo d’osso con il midollo
un pezzo di gambuccio da prosciutto non troppo stagionato oppure, per chi non ha problemi con il grasso, un pezzo di lardo dal sottogola del maiale o dalla pancia, ben pulito, con qualche venatura
400 gr di ceci ammollati dalla notte prima
3 carote
2 porri
1 cipolla media
1 aglio
Qualche pezzo di costa di sedano, prezzemolo
Sale q.b.
Acqua fredda, pentola a pressione da 5 litri (insomma, 5-6)

Fare bollire il tutto a pentola aperta e schiumare bene. Chiudere la pentola a pressione e lasciare cuocere per circa 45 minuti. Svaporare e separare il brodo dalla carne, dalle verdure e dai ceci. Filtrare il brodo con un colino a maglia grossa, giusto per togliere eventuali pezzi di carne o di erbette, e farlo freddare, per togliere successivamente la pellicola di grasso che ci si sarà formata sopra. A questo punto, si può preparare una miniestra con dei spaghetti tagliati piccoli, i ceci e parte del brodo, che sarà il primo, oppure manguare separati i ceci come contorno del secondo ed il brodo, filtrato con un colino a maglia più fine, berlo in tazze da consommé. La carne, il prosciutto, etc, tutto dissossato e porzionato, è il secondo e si serve con le verdure come contorno. Per i golosi (indovinate) c’è il midollo e il lardo, da mangiare senza ritegno, spalmando su pane appena tostato.


giovedì 18 novembre 2004

Net to be_se famo un altro caffé

A me lo dite, che ogni volta che pigio "13" la stupida macchinetta si setta su "11" e mi tocca regalare un caffè non macchiato a qualcuno dei miei adorati colleghi....
Il resto qui, da R:ob Grassilli

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Invisible wires

Tlac, contro il mio ginocchio piego l’asticella degli occhiali; parte la molla, si raddrizza con un breve vibrare, tlac, la ripiego, tlac, di nuovo. Mentre il rumore dei turisti mattinieri riempie San Giovanni, al cui interno il Borromini mise angioloni minacciosi con ali come spade, tento con gli occhi chiusi di richiamare i fili che ho sparso in questi giorni, e quelli che mi sono arrivati domarli ed ordinarli. Estesi nelle nuvole, aranciati dal sole, nascosti nelle scale, seguiti dalle ruote delle macchine, i fili di energia creati dalla musica nella quale affondo come in un mantra ipnotico, concentrati, han viaggiato come silenzi e parole. Molti fili non miei mi arrivano alle dita. Con gli occhi ancora chiusi alcuni, leggono nei miei palmi, sento le loro correnti immaginare la mia vita: altri rossi di sangue, ingrossati dal pianto, minacciano - poi si sono disfatti. Altri hanno trovato ad accoglierli le mie porte aperte, e si sono portati via i miei "Jonathan Livingston, gabbiano". In ginocchio, con la testa tra le mani, sembro pregare. La luce filtra nella navata mentre visualizzo tutti i miei legami e li tronco netti. I volti, i corpi, i gesti, tutto si allontana. Naturalmente sono stanchissima adesso. Di botto risento i passi delle persone, il click delle macchinette fotografiche; percepisco i contorni con grande nitidezza. Mi alzo ed esco sotto un cielo confuso, rabbiose macchie di vari celesti, le nubi che girano come invasate. Ho bisogno di un caffè molto zuccherato, e di temperatura più mite per gustarlo. I baristi del bar sotto la scuola, veri kraftwerk serissimi, mentre controllano tutto con gli occhi così mobili da sembrare sfaccettati, mi porgono una tazzina che mi sembra minuscola. Bevuto di un fiato, come fosse una grappa, la mia attenzione si risveglia, si concentra sui profumi. Richiedo un chicco da masticcare, da schiacciare coi denti, che mi riporti al giorno. E cammino sullo stradone, finalmente pulita, soddisfatta…

mercoledì 17 novembre 2004

Risparmio di energia

Ma si, anch’io so essere banale, mi piacciono le macchine nere con dentro la pelle avorio, ed ecco perché stamane ho fatto sfida-a-gioco con una Touareg lucidata che como el solito era guidata a scatti rabbiosi in mezzo al traffico dell’A24. Il guidatore mi ha raggiXata da dietro occhiali in perfetto stile Matrix, con un po’ di cipiglio, riccetti morbidi neri a incorniciare la fronte, giubetto di pelle o di camoscio nero, e basta, che lo specchietto non permette altre visioni. Dopo che lui si è fatto la sua diagnosi, mi sono buttata a destra, io conosco i comportamenti del flusso, e l’ho sorpassato con lieve frenata così da metterlo in posizione di sudditanza. La Touareg si è allontanata e il traffico si è diradato, poi appiccicata, allora giù di quinta e l’ho seminata. Ma naturalmente un possessore di SUV non può non reagire, e mentre io mi protendevo regolamentarmente a destra per uscire al Raccordo con scalata di marce sincronizzata al secondo, lui ha sorpassato curvando come un falco, chiaramente comandando, e si è buttato tutto a sinistra, come fanno gli affrettati tutti i giorni; ma non sanno che è la destra che comanda, sulla strada. Scivolata lenta verso la corsia di scambio, mentre lui rimane bloccato in quella di sinistra, addio; due occhiatacce e frenata a 10 cm con una Punto bianca che per nulla al mondo aveva intenzione di farmi passare, e poi via verso il grande anello. Ed ecco che è successo: la strettoia dell’uscita sul raccordo mi mangia sempre le macchine migliori, la Touareg è risucchiata, nemmeno l’ombra, il gioco è finito. Solo i soliti noi, tir e camioncini militari, moto con sopra i primi imbaccuccati, la fauna del raccordo tutte le mattine. Dov’è andato?

Mi sento una ragazzina dispettosa, frustrata da situazioni molto più grandi di me, indominabili; e sotto questo sole immenso, che ci contempla soddisfatto tremare sotto la prima tramontana, mi vene un motto di rabbia: colpisco l’innocente volante una, due volte. Ma poi mi placco, ritrovo il basso continuo della giornata, parcheggio senza manovracce, guardo gli uccelli riposarsi sui cornicioni di metallo mentre il palazzo acciaio e rosso m’ingoia; tiro una riga con il badge, che mi risponde con il solito gracchio. E passo alla modalità stand-by.

martedì 16 novembre 2004

I trasporti umani

Quanto, quanto mi piacciono gli autisti degli autobus. Oggi, preso al volo in Piazza Venezia un 85, ecco che mi trovo catapultata dalla calca dentro quasi la cabina di guida. Soffriamo tutti di ossa sporgenti. Sbircio a sinistra lo sguardo del conducente invaso, tasto il clima del proprietario del territorio; vedo prima un pesante anello di argento invecchiato all’anulare della mano destra, design medievale, forse acciaio, no, e non è una fede, che strano. Poi guardo lui, un tipetto con gli occhi chiari e le labbra borboniche, che parla con un ragazzetto.
- Si, sono rappresentante del Folletto, vedessi la gente, mi dicono di tutto da dietro le porte, m’insultano, mi mandano li morti, ne ho venduto tre, sto nella squadra con questa ragazzetta, Debora…
- E come è?
- Beh caruccia, l’altro giorno è venuto il suo ragazzo e mi ha insultato e minacciato di botte e che la dovevo lasciare stare, ecco, allora io ho provato ad ammansirlo con le parole ma poi sabato sono andato a trovarlo alla pasticceria, mica niente ma sono andato con i miei amici, non che siamo andati apposta, mi accompagnavano a fare un giro, lui non c’era, ho lasciato detto che ero passato a cercarlo..
- Ma lei, ci sta? – Uh, senti questo autobus, tra un po’ va in pensione, senti che sospensioni…
- Ma certo che ci sta, lui non se la fila, lei si risente, sono due anni, sempre nella pasticceria, gli dice “vienmi a prendere al lavoro” e lui “no, sto in pasticceria, non posso”, con me sta bene ma con gli altri fa finta che non ci stiamo insieme, a me mi fa arrabbiare ma mi piace, beh, io scendo, ciao!!


Io ridevo di gusto tutto il pezzo, a momenti prendevo io il volante quanto eravamo stipati.
- Beh, sto regazzetto m’ha esaurito…
- Io non mi sono persa nemmeno una parola.
- Se continuava così o facevo scendere! Ma questo è il bello di questo lavoro, parli con tutti…


E gli ridono gli occhi, la pelle delle guance è dorata mentre passiamo sotto le luci gialle per le quali Roma è particolare, luci sotto le quali non vedi un accidente, ma che rispecchiano su tutto e tutti artificiali ottobrate appena il giorno se ne va.

Costeggiamo il Colosseo, dove allestiscono un palco e provano le luci sul travertino ormai reso mite da 2000 anni di saccheggi e oltraggi di tutti i tipi. Quiz tra il pubblico: Concerto lirico? Recita di poesia? Concerto rock? Sperimentale? Si… No….E quando lo fanno… sabato? E già preparano e provano da oggi? Brusio infastidito dell’autobus tutto che pensa ai mezzi deviati altrove del normale percorso, un cambiamento nelle abitudini ghiacciate è peggio di un foruncolo… L’autista guarda il telefonino che ha squillato discreto, lo spegne, canticchia, si dimena mentre gira le curve.
- E’ l’ultima corsa?
- Certo, signo’, ecco perché me la canto, che sennò….
- Si vede, a voi autisti, quando è l’ultima corsa.
- Ahhh! Non c’è nemmeno traffico oggi!
- Sono andati via i pizzardoni dall’incrocio!
- Signora, anche per lei va a casa, finisce la giornata della casalinga?
- No, - ridacchio - io mo’ entro e ritimbro, mica è finita qui, preparo la cena, etc…


Pasano una dietro l’altra due Boxter blu. Mi distraggo un pochetto dagli occhi ridenti. Certo è che stavo per andare fino al capolinea, per sentirlo cantare, rilassato nei suoi ultimi dieci minuti di lavoro: ho visto tanta gente che sorrideva, oggi, ma lui solo è stato simbolo di quel sole ridente che non molla la città, che butta a fare ombra questo simulacro d’inverno, mentre altrove si è già nascosti sotto i tessuti, ingrugniti. Poi sono scesa come sempre sotto la mole severa di S. Giovanni: una fiumana di macchine nervose all’incrocione mi accompagna passo a passo, mentre io conservo tutti i sorrisi, a casa…

lunedì 15 novembre 2004

Net to be_busy

Non bastasse con le suonerie ed i bip dei telefonini... il resto, qui,
da R:ob Grassilli

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Una poesia

Tu, con gli occhi rivoltati
ormai oltre ogni limite
controlli l’immobilità dei passi dati;
mi cerchi come l’acqua
cerca una mano di terra, curva,
laddove evaporare.
Io effettuo un solo movimento,
e faccio dunque come gli scrittori,
indefessa davanti al libro aperto
ho un fitto dialogo di botte, di risposte;
non me ne volere, allora, se qualche volta
presa da un calore come di zenzero
alzo per te la mano.
Io le so, le risposte, professore:
sola, lontana e sola.

domenica 14 novembre 2004

IsMyBlogBurning#6: la comida di mama

Beh, non ho resistito. Se si parla di mangiare, ci posso parlare.
Ecco dunque una ricetta ritardataria per la maratona di ricette di Comida.

Due sono le cose che io adoro e che voglio mia madre mi fa, quando torno a casa: una, il brodo che spiegherò per l'IMBB di Vesnuccia, un'altra los churros. Questo dolce è tipico di Madrid, capitale della Spagna, collocata sull'immenso altipiano castigliano, e dunque molti dei suoi piatti tipici si sono estesi ovunque. E' tipico delle feste di quartiere e cittadine in tutto il paese; inmmensi calderoni fumanti olio ne friggono a tonnellate di questa massa semplice, che l'olio d'oliva molto caldo rende profumata e che affogata nello zucchero e buttata nella cioccolata calda, è piacere sublime di pomeriggi freddi e colazioni famigliari.

In Spagna vendono delle speciali "macchinette" per fare i churros a casa, ma io so che voi avete sufficiente dimestichezza con la tasca per dolci come per farne a meno!!!

Per 4 persone:
1 l. di latte
4 cucchiai di sale
800 gr di farina setacciata
4 uova
Zucchero

Fare bollire latte e sale in una pentola. Al momento del bollore gettare in un colpo tutta la farina e girare energicamente per incoporarla finchè non si stacca dai bordi della pentola. Togliere dal fuoco ed aggiungere le uova intere, una alla volta. Amalgamare e fare riposare mentre si scalda una buona quantità di olio di oliva in una capace pentola per fritture. Con l'aiuto di una tasca con bocchetta a stella larga, riempita dalla miscela ottenuta, far scendere lunghi cilindri nell'olio, tagliandoli alla lunghezza desiderata (circa 12-14 cm) e friggerli finchè siano dorati. Adagiarli in un vassoio e cospargerli di tanto zucchero, mentre sono ancora caldi. Inzuppare in caffelattè o, di preferenza (è la morte loro) in un buon cioccolato a la tazza, aromatizzato alla cannella.

sabato 13 novembre 2004

Italia—All Blacks 10-59, e allora?

Perché mi piace il rugby? Principalmente perché è uno sport di squadra, ed io credo nella squadra come corpo formato da identità eccellenti, ma non solo. E’ uno sport in cui il senso del rispetto, della correttezza tra uomini, cosa significa rispettare nel suo significato più nobile, è altissimo. In cui la furbizia non esiste: esiste una forma più alta di intelligenza animale. In cui l’emotività maschile può essere manifestata nella sua ricchezza: non è brutalità, ma intensità assoluta della potenza, della forza. In cui la disciplina permette di raggiungere la perfezione. Le liti in campo, gli strattoni, i calci, sono sempre misurati, sempre intelligenti, rispettanti un codice; gli sguardi elettrici ed i gesti di gioia, nonché un mondo tabù di fisicità tra maschi, hanno una purezza riscontrabile soltanto negli animali intoccati dai difetti della civiltà. La velocità dei ghepardi, l’implaccabilità e la potenza degli ippopotami. Il branco, la squadra intera si muove (quando tutto va bene, quando si sente la superiorità e l’orgoglio di vincere) come una semplice forza della natura: linee di energia percorrono il campo, girano centrifughe nelle mischie, sono inarrestabili corse di un vento umano che finalmente sfiorare con la palla la zona di meta, un massimo nella coreografia dell’autocontrollo.

Posso anche sfiorare il ridicolo, lo so, anche le gomitate, le occhiatacce: io non vedo che questa forza inarrestabile, pura, sprizzare da corpi specializzati come macchine: la tecnica, l’uso delle regole è asservito ad una produzione nella quale ognuna di loro è, deve essere, perfetta. Ieri, malgrado la sconfitta, mi sono rimaste negli occhi (e il pubblico? Un sangue solo con la sua squadra) la difesa marmorea Locicero (malgrado i buchi impresionanti da dove entravano i Blacks come sotto un arco di trionfo), la corsa, il volo di Bergamasco, l’intelligenza di Nitoglia, l’impassibilità divertita di Wakarua, gli implaccabili Umaga e Muliaina, il mulinare delle gambe di Rokococo. Ed il lavoro, senza cedimenti, di John Kirwan.

…..Io ho sempre pensato che il Torso del Belvedere, indubbiamente un lottatore, aveva la stazza del mediano di mischia….

giovedì 11 novembre 2004

Una citazione

Ogni eccesso diminuisce la vitalità, e dunque la sofferenza. La sfrenatezza è tutto fuorché frenetica, contrariamente a quanto vien creduto. Non è che un lungo sonno.

Albert Camus, La Chute, libera traduzione

Interni


Crudele luce del pomeriggio che finisce... Posted by Hello

mercoledì 10 novembre 2004

It’s my blog exploring blogs#1

Dopo aver letto iniziative intrablog che hanno come scopo condividere gusti o passioni comuni (le ricette, i libri…) volevo lanciarne una io, ma diversa…. Penso che quasi nessuno di noi scribacchini di diari (e io li scrivo dai miei 16 anni, rigorosamente senza commenti) ha avuto subito, appena si è tuffato nella bruma della blogosfera, un immediato feedback. Come ogni scrittore o scribacchino, tutto è silenzio agli inizi; nemmeno il rumore delle acque materne di noi stessi ci annuncia che siamo nati e che là fuori potrebbe stare qualcuno/a che condivide con noi delle cose, a qualunque livello d’intensità, e ce lo vuole dire. Nel rarefatto cosmo della rete ci sono alcuni indicatori lampeggianti che segnalano la presenza di aggregati di pensieri e pulsioni: alcuni sono anche georiferiti... (Blogitalia, IL Cannocchiale, Blognews, Iobloggo, Splinder in primis, ma anche Blogolist, Blogonautes, 20Six (French), Bitácoras, Blogalia, Blogdir (Spanish), Blogwise, qui a Blogger, etc..). Persino il “next blog” che aspetta lì in alto a destra della pagina che state leggendo, lo è. Oppure nel mio profile, basta puntare su una parola che v’ispira anche a voi, con la quale siete in contatto; anche la sola “Italy”. Navigate.

Cercate qualcosa di nuovo, un "diario" che vi piaccia. Quel che trovate deve avere 0 comments almeno per una settimana, gli va lasciato un commento, e va recensito qui da me, se volete; data limite il 30 novembre. Valgono l’italiano of course, l’inglese, lo spagnolo, il francese, ma anche il catalano, il triestino, etc. etc. (Non è obbligatorio iscriversi a Blogger per commentare; sotto la parafernalia dell’iscrizione c’è il link “post anonimously”!) Allargate i vostri orizzonti e la lista dei vostri links. Good luck.

Net to be_fear!

Il seguito, i precedenti, fatti da lui: R:ob Grassilli


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QuantosseibbellaRoma_6


Oggi che piove tanto..... mi ci vuole un'immagine di transizione... Posted by Hello

martedì 9 novembre 2004

La distanza è una disdetta

Sono rimasta a letto fino a mezzogiorno, in uno di quei giorni, pochi, all’anno, cui posso stare sola per ore a sentire i rumori e gli odori ed a rimuginare i miei pensieri. Non riuscivo a dormire perché incrociavo continuamente le caviglie e così, a mo’ di crocifissa, non dormo mai. I muratori ("Valerioooo…. A Valéééé…..Passami ‘a spugnaaaa!!!!”) ed una lama di freddo mi hanno accompagnato nel semibuio, fino a prendere il barattolo del caffè, sentirne l’odore, riemergere alla giornata un po’ stranita, come se avessi maldormito in una stazione. Passano gli elicotteri sottolineando dritti il cielo. Una moto sgasa per prendere la curva, qua dietro, rilassata. La mattina è sospesa a quest’ora, prima di pranzo c’è un formicolare che non è di lavoro, un diluirsi verso una qualunque uscita. Mi sono strizzata le mani fino a sentire le unghie. Avevo voglia di renderti tangibile, di sentire sotto l’indice 2 cm2 di calore puntuale. Due libri sottobraccio: uno che parla di gente che mai si vede, che si sente e si scrive e si effigia via fibra ottica; l’altro, del potere dell’amore, dell’intensità della gelosia. Volevo forse condividere una scena: tu che corri verso di me, o che rimani ad aspettarmi. Io che accelero (non corro mai) o che mi fermo per guardarti. Una battuta delle dita sulla notizia che ci colpisce a tutt’e due sul giornale, ehm, mi presti un fazzoletto di carta? E per favore, andiamo ad annegare l’emozione nel fondo di un caffè….
Poi mi si è parata davanti, come una madrastra, come una torre di piatti sporchi, la coscienza dell’impossibilità. Ed ho cercato, nella sezione turismo della libreria, una mappa tascabile, la più piccola possibile, che mi desse l’illusione di una distanza minima, digeribile. Non certo quella vera, allungata come un treno che se ne va, ben curvata sulla superficie terrestre.

Ho ritagliato il centimetro che ci separa; questa è la realtà. E’ soltanto un centimetro.

sabato 6 novembre 2004

Le cafard

O the spleen, insomma una malinconia di questo cielo che si chiude lentamente, vinto dai guru del tempo che ci annunciano tuoni e fulmini da una settimana, mentre in tutto l’interno e parte dell’esterno delle nostre frontiere, alias il Raccordo Anulare, il sole brilla leggero e sfottente come al solito. Bambini che giocano in giardino mi distolgono dalla traduzione di cartelle e cartelle da studio notarile. Ma non sono loro i colpevoli, sono muta da giorni al voler e poter dire. Come in una piccola setticemia le parole nascono, percorrono ogni luogo reputato del cervello, si fanno belle, splendono, e trovano le quotidianità diabolik-nere; sono dunque ridotte in polvere e fumate nel nulla.

Le cerco, ripercorro le culle, e trovo soltanto cenere e cenere, e mi bevo la cenere, e mi avveleno al tramonto.

giovedì 4 novembre 2004

Una citazione

Democrazia, parola vaga e vuota, indica soltanto la confusione introdotta dall'uomo comune, nella quale prospera come la malerba. Potremmo dire allo stesso modo: miraggio, illusione, abracadabra.

Henry Miller, Plexus

L’onnipresenza di un solo fatto

Dovrebbe essere normale non scrivere per un po’, sentirsi anche un po’ busy. Confesso che tutto l’abracadabra elettorale mi ha sbattuto a destra e sinistra dei miei pensieri, distraendomi da quella concentrazione su me stessa che mi è imprescindibile per scrivere. Fioriscono dapertutto commenti più o meno brillanti sull’evento dell’anno che oscura tutto e tutti e che soprattutto sembra vuole oscurare, più circo che mai, l’importanza del mio quotidiano, del quotidiano del vicino, vuole oscurare le mie sensazioni, dovrei pensare a quello e non per esempio alle sensazioni che mi produce sentire le voci dei lavoratori romeni che stanno nelle impalcature che coprono le facciate di casa. Vorrei invece ricevere questa notizia almeno dieci mesi da quando si è verificata; come quando nel Far West, in un assolato pomerigio, un viaggiatore portava una notizia dalla capitale, dalla città più grande, dall’Europa, ed era tutto meraviglia, ci si poteva pnesare e meditare sopra, ed era una notizia importante davvero se era riuscita ad arrivare così lontano. Adesso, tutto è importante, e io resto sgomenta perché mentre tutti spargono le teorie sull’importanza assoluta di questo momento, e soltanto da questo, io continuo a sentire che ci sono migliaia di altre “notizie” altrettanto e sicuramente anche più importanti, per me, per tanti.

In più il clima è confuso, il pomeriggio si scurisce presto in una notte troppo lunga per me, cui non bastano nemmeno le circa 18 ore di luce estive. Roma diventa brutta quando si avvicina l’inverno, si ripiega su se stessa e si rigira come un animale che cerca la propria posizione per un letargo sporco ed inquinato, di pozzanghere e luci taglienti che provengono da tutte le parti meno che dal cielo. Sono concentrata soltanto su questo momento di debolezza.