giovedì 31 marzo 2005

La pioggia invidia le città di mare

Una delle cose più belle di questa città è senza dubbio i temporali minacciosi che sfogano in tre-quattro minuti una grandinata spietata di gocce grosse. Un po' come quello che si racconta qui. Questo pomeriggio, senza alcuna voglia di tornare a casa, con sul sedile un mucchietto di fogli A3 da tradurre (forse è finita la carta normale? Non ho chiesto), mi sono allontanata nel quartierello dei giornalisti e gli impiegati che bivacca e gode all'ombra della Biblioteca Nazionale, per poi serpeggiare verso la Nomentana. Prima davanti, poi dietro, poi davanti di nuovo il cielo grigio antracite, grigio più grigio, grigio canna di fucile; sui quadrati e rettangoli del Deposito dei Libri (nella mia wishlist personale c'è scritto: "entrare nei depositi della Nazionale") scende verso Ciampino un aereo brillante sotto il sole feroce; poi mentre giro per imboccare la Nomentana vedo i lampi, linee delicate tracce distratte dell'accumulo di calore dell'ultimo giorno del pazzerello marzo. Contro il cielo si stagliano tutti i palazzi, un effetto polarizzatore; l'aria è così pesante, entra ed esce esausta dalle finestre aperte, chiedendo una liberazione. Ma io so che si deve ancora caricare il cielo intero come una grande pila: difatti, sotto le nuvole si accendono non più lampi ma esplosioni. Vado dietro ad uno dei nuovi filobus, un animale goffo e pacioso, che ondeggia senza fretta, senza perdere il contatto con la linea elettrica; i cavi mi portano, mi portano dentro i quartieri che sembrano piccole città del nord o periferie milanesi o torri solitarie, un solo lato esposto al sole, che stanno tutti come in un grande plastico, in attesa di binari e motrici e vagoni. Finalmente - lo sto aspettando - il grigio rimane sospeso, esplode nella bianca vittoria contro il sole, e viene giù la pioggia a risate, esagerata, l'asfalto di colpo un mare; io, dentro lo squalo, mi lascio portare dai Gotan Project, malinconica. E' quasi bello non vedere niente, schivare motorini attoniti e i pochi non romani o non previdenti che corrono sotto le borse o le giacche o semplicemente bagnati fradici.

Mi arrampico e poi scendo giù per strade sconnesse, fino a Largo Labia. Lì il gioco finisce. Giro senza sapere dove vado, in mezzo alle campagne - dove forse, chissà, giocano ancora i bambini - e imbocco cloni di raccordi e tangenziali, scendo Via Bufalotta buttando le ruote nelle pozzanghere, finalmente Piazza Sempione. Piove a sole. Di nuovo, nell'aria pulita, tutti i villini e le ambasciate e le ricche case i cui balconi sono sorretti da statue di schiavi muscolosi. L'ultimo tratto è dritto e lucido come una striscia di gomma. In fondo, i tunnel del Muro Torto. Un guizzo ed esco a Castro Pretorio.

Ah, c'è la pizzeria a taglio aperta, a Via Palestro, ancora. Ci sono anche delle minisfogliatelle né dolci né salate, calde, con dentro un quadratino d'arancio candito che mi guarda sornione dalla crema... E' finita la pioggia, intanto, come sempre.
'Na sfuriata, e vvia...

mercoledì 30 marzo 2005

Risponde l'operatore 56754

Sono reduce di telefonata a numero verde. Una banale raccolta punti. Voci suadenti, chitarre folk. Digiti uno per, (oppure) Digiti due per, poi segnale di occupato, o di libero, o "La stiamo inoltrando al primo operatore disponibile", e poi, dopo un microsecondo in cui ho liberato il respiro compreso: "Siamo spiacenti, provi a richiamare più tardi", oppure silenzio astrale, di quelli da 2001 di Kubrick.

Adoro i numeri verdi. Certo, non sono tutti così. Ma alcuni sono un'ottima palestra per la mia rabbia. Se per caso la pressione è a terra, si alza istantaneamente. Se l'acqua per la pasta non ce la fa a bollire, bolle per induzione prodotta dal mio sguardo laser mentre biascico in tre lingue delle parole non raccomandabili. Poi mi si scuoce, perchè penso ai ragazzi stipati nelle stanze dei call-center, ma anche ai due impiegati presi lì per lì e schiaffati a rispondere al pubblico inferocito, e mi dispiace. Chiedo sempre: Quanti siete? Quante ore?

In molti mi hanno anche ringraziato, abituati come sono ad essere aggrediti da chi vuole un servizio pubblico senza capire che spesso quello che cerca è affidato alla volontà ed il benessere del singolo: chi gli risponde e i successivi tecnici, se ci sono. E dunque a tutti loro è dovuto un rispetto. Rispondo a tutti, anche ai sondaggi più astrusi, alle offerte mille volte proposte, accettando o rifiutando senza acredine, con garbo quasi, immaginando che dall'altra parte ci sia uno/a come me, esattamente come me, che a ore impossibili, in cui vorrebbe fare cose più piacevoli, deve parlare con tanti, tanti sconosciuti, e che spesso non può fare altro che riempire delle maschere, o "inoltrare la segnalazione".

E' una specie di carcere psicologico. Non posso essere, anch'io, tra gli aguzzini...

domenica 27 marzo 2005

Pasqua

I am the spring, the holy ground,
the endless seed of mystery,
the thorn, the veil, the face of grace,
the brazen image, the thief of sleep,
the ambassador of dreams, the prince of peace.
I am the sword, the wound, the stain.
Scorned transfigured child of Cain.
I rend, I end, I return.
Again I am the salt, the bitter laugh.
I am the gas in a womb of light, the evening star,
the ball of sight that leads that sheds the tears of Christ
dying and drying as I rise tonight.


Patti Smith, Easter

Auguri a tutti/e, lettori e scrittori, golosi e asceti, laconici e chiacchieroni, di cuore.

sabato 26 marzo 2005

Magia dei cortili immaginati




Il mercato coperto, ex di Piazza Vittorio, mi inghiotte. Sono circa le 9.30, ho parcheggiato dove non dovevo e lasciato le frecce, e mi sono fiondata con le chiavi in mano alla ricerca del venditore di uova che una volta lì c'era, prima dei banchi del pesce e dei macellai arabi. I banchi che vendevano una sola cosa, e solo quella, era la prima stranezza che colpiva il non-romano nello scoprire quel disumano disordine colorato, e negli anni sempre più pieno di odori di spezie che fu il vecchio mercato della Piazza. Il banco dei limoni. Quello delle patate. E quello delle uova, che ne aveva rosse e bianche e di tutte le misure, anche piccolissime, che adesso non si trovano giacché tutti siamo ricchi e compriamo le extra-grandi... A velocità massima ho fatto il giro dei cerchi concentrici, pensando ai gironi danteschi, lasciandomi dietro piramidi di peperoni, banchi di cibo rumeno e di spezie - nei quali devo resistere a non prendere pizzichi di polveri e strofinarmeli sotto il naso - e finalmente sono passata nel regno del pesce di paranza e del vociare, del pavimento scivoloso, i venditori tutti vestiti di bianco come chirurghi e sospettosi come fossero venti, trenta Achab redivivi. Laddove in piazza si passeggiava, qui si corre, si è compresi nei colori e nelle diversità che popolano i dintorni; e quando dopo due o tre giri di labirinto finalmente trovo il venditore di uova bianche. Esco, fuori c'è il camion che prende i resti dai macellai (non è spettacolo per tutti), furgoni frigoriferi da dove si scaricano maiali interi, cinesi a guardia dei posti auto mentre telefonano da cellulari supertecnologici, un viavai brooklyniano per le strade vicine, i telephone center che rigurgitano di persone, motorini e crocchi di gente che chiacchera circondata dalle buste bianche della propria spesa. Camminando sulla strada, schivando motorini e macchine in doppia fila, sto per aprire la portiera quando mi colpisce il cortile di un palazzo umbertino lì di fronte: una fontana con le grottesche di finta pietra... e non resisto. Entro, chiedo permesso al portiere, e scopro che non c'è un largo, profondo cortile, ma che la fontana è messa strategicamente in modo che lo sembri dal di fuori, e invece dentro è solo un cortiletto che ospita vasi ordinati e biciclette, con in fondo la tridacna nascosta tra i capelvenere.

- Bello, qui. Ma lo sa che da fuori sembra un cortile enorme?
- Si, me l'hanno detto in tanti.
- Mi ricorda quella che c'è dentro a Palazzo Fontanella Borghese...

Vado. Dietro a me è parcheggiata, incollata, una lunga, possente Mercedes; il proprietario la vigila dal negozietto di abiti per bambini, scarno come lo sono tutti i negozietti cinesi. Ci guardiamo. Sono passati tanti anni, lo so, ma sono anch'io una straniera. Anch'io appartengo a questo pullulare intorno ai mercati e vicino alle stazioni; sono sempre, dentro, sul punto di partire. Le mie radici sostengono i mei rami...

venerdì 25 marzo 2005

Carne y sangre

Il tempo è una cosa curiosa. Giro per il corridoio di casa - sperando che la caffeina trovi un passaggio chimico fino alla riattivazione dei miei neuroni rintanatesi chissà dove nella notte - senza capire razionalmente cosa faccio né cosa dovrei fare. L’istinto, smarrito, ribelle. Le lancette dell’orologio sono nere come cornacchie, corrono. Il caffelatte freddo, il sapore delicato dei biscotti, l’acqua che non lava via la nebbia del sonno, vestirsi a tozzi e bocconi sotto la luce grigia di una mattina umida. Stacco la spina del caricabatteria del cellulare, il cavo attorcigliato in spire torturate, che resiste ad ogni tentativo di essere rimesso ben arrotolato. Sono i compartimenti stagni del tempo pre-lavorativo, solidi, definiti: ogni gesto staccato dal suo contesto, funzionale soltanto al dopo. Un tempo difficile, crudele.

Invece appena sono fuori, sulla strada, mi rendo conto di come il tempo diventa puntuale, leggerissimo. Mi rendo conto che la vita (e vorrei che non fosse che questo) non è che questo infinito adesso continuo in cui ogni gesto, ogni atto e pensiero sono iniziati e finiti nello stesso momento. Ed ogni azione è priva di desiderio di eternità, ogni rapporto umano dura un tempo tutto suo, ad ogni secondo tutto può finire o mutare: sento questo movimento che abbraccia tutto e che non posso fermare, sento intorno e vicino le scie che lascia la vita, che ognuno vuole conservare e che invece appartengono al tempo e in lui si sciolgono come il fumo denso di un buon sigaro.

Arrivata al parcheggio, mentre mi metto la giacchetta e sento gli odori dell’erba e gli alberi e gli uccelli canticchiare (una cornacchia su un pino mi guarda con gesto prepotente e sornione. Quando mi avvicino con la macchina fotografica, piega la testa come a dire “ma de che?” e si butta a volare verso pini più alti), tutto ciò un po’ mi ribolle dentro, indefinito come tutti i pensieri fluidi che faccio e che poi fatico a mettere per iscritto. Il tempo del lavoro è un tempo a scatti, nevrotico, stridente. La sua concretezza, il fatto che abbia un valore misurabile e in questa misura finito, me lo rende sterile. Ma accetto questa parentesi nel fluire. E la consegno al futuro.

giovedì 24 marzo 2005

Vacanze semiobbligate

And you may ask yourself
What is that beautiful house?
And you may ask yourself
Where does that highway go?
And you may ask yourself
Am I right?...Am I wrong?


Talking Heads, Once in a lifetime

La città si sta svuotando. Lo sento in come scorre il traffico. E io, che non parto, pregusto il piacere incredibile di percorrere le strade - e i lungoteveri, i parchi solitari, i viali diventati vuoti - come un innamorata che studia l'amato, insieme a motorini paciosi e senza che mi (ci) suonino dietro i SUV esagerati...

mercoledì 23 marzo 2005

Parlo dei blog_1

Il mio first contact con il mondo dei weblog cominciò circa nel 2003, con quello di un matematico francese al quale accesi via le pagine personali di tutti gli allievi, consultabili nel sito della Scuola nella quale aveva finito gli studi e sul cui server lavorava come tutor informatico per tutti. Già questo mi aveva colpito non poco: lo so, i programmatori informatici, i geeks, sono una razza a sé, e che utilizzassero tempo e conoscenze per una collettività medio piccola, come è quella di una scuola superiore, aprì nuovi orizzonti ai miei pensieri sul sociale e soprattutto sul mio pallino personale: la gestione del proprio tempo e della propria conoscenza in libertà. Quando aprì il suo weblog, che mi sembrò un misto tra il semplice diario emotivo ed una valvola di sfogo del suo sapere matematico, non c'era un template superelaborato, non aveva i commenti, ma un bel po' di gente lo seguiva, anche perché ad aprire le pagine del sito degli allievi, la sua era tra le poche ad essere aggiornata tutti i giorni, e questo è garanzia di serietà in un blog: la continuità. Attorno al suo weblog si è creato nel tempo un piccolo gruppo di intellettuali e non, con i quali condivide, come dicevo prima, tempo, gusti e conoscenze e, com'è anche inevitabile - un blog non è una chat, se c'è contatto di idee c'è quasi subito un bisogno di rendere reale la persona che comunica con noi - ha conosciuto molti dei suoi lettori e creato con essi dei legami affettivi di vari tipi. I commenti sono intelligenti sempre, anche perché moderati, cosa che si rende necessaria per forza appena una blog-community si consolida; ma ciò non è differente del formarsi di un gruppo di opinione qualunque, che per forza deve mantenere al suo esterno tutto ciò che può distoglierlo dalla propria, comune musica.

Dunque, cos'è un blog, per me? Un elemento scritto, di una piccola ma anche grande comunità di scrittori/lettori, nella quale persone diverse decidono di comunicare ed arricchirsi gli uni agli altri con la condivisione di idee, sentimenti e informazione. Queste persone non sono imposte, ma si sono scelte. Non si linkano e si citano per snobismo, supponenza o perché hanno un alto numero di accessi. Tutto ciò avviene perché loro lo vogliono.

(continua. Intanto, se avete qualcosa da dire in proposito, commentatela...)

House & cooking

Oggi, tutta casa e cucina (lo sentite, l'odore di sugo con le spuntature?). Dopo parlerò di blog.

lunedì 21 marzo 2005

E adesso?

Cosa succederà a noi piccoli flickeriani? Yahoo, e non Google, si è comprato Flickr. Speriamo, come si legge anche qui, che lo spazio degli account free sia aumentato. Fotografate, immagazzinate e... attendere, prego.

domenica 20 marzo 2005

Ho pure perso una scommessa

Ebbene, dopo il micidiale (in tutti i sensi) partitone con i miei francesi, tifavo per gli irlandesi. Ebbene, non ce l'hanno fatta. E mi è toccato riconsolarmi con qualche dolcetto, il cucchiaio di legno ed un randello per i siti delle Federazioni, aggiornati di solito a due settimane prima delle partite. 6 Nazioni, adieu.


Una torta de consolazione. Posted by Hello

Città dalle cento città

Vuelvo al Sur
como se vuelve siempre al amor
vuelvo a vos
con mi deseo, con mi temor

Gotan Project, Vuelvo al Sur

Il mio Sud di Roma sono quelle immaginarie spiagge bianche dell'EUR, che portano verso il vero mare, e dove indugio spesso, più del necessario. Il pomeriggio di questa primavera scoppiata di colpo (siamo agli antipodi esatti delle ottobrate) contiene quella luce carezzosa, rosa pubblicitario, che scivola mielosa su tutti i piani alti delle lunghe, severe case fino ai Navigatori, da dove un po' tutto di dirada e confonde in aziende, edifici istituzionali, campetti con sfondo di quartieri. Poi, dopo il rettifilo della Cristoforo Colombo, una lunga salita porta fino a dove il verbo arrivare prende una sua consistenza marmorea; l'acqua delle fontane è congelata nell'infinito gesto di giocare con l'aria, le stradone larghe con i bar seminascosti negli angoli rifiutano l'estraneo, la luminosità dei travertini riposa fissa e languida sotto gli occhi senza orbita del Colosseo quadrato, dove è scritto per sempre che gli italiani sono un popolo di navigatori, inquieti e visionari.

Ma non oggi, voglio ritardare e far notturno questo incontro. Vago dunque per la Garbatella, accolta dai viali con platani dai rami lunghissimi ancora spogli, contorno le vecchie case che stanno solitarie, come anziane dame molto truccate di fronte al tramonto. Poi, un tuffo di striscio, a costeggiare S.Paolo, l'immenso plastico, la chiesa più solitaria e derelitta che conosco, quella che ha il complesso della ricostruzione, il colore del cemento insieme alla finzione di mosaici che mai rieccheggeranno le voci e le luci del medioevo. Fuggo per la via Ostiense fino al Gazometro. In una stradina di accesso, un forno con l'insegna di neon blu, nella luce confusa che precede la notte, è come uno spostamento spazio-temporale, una immagine di fantascienza. L'enormità del Gazometro tagliata dai muretti limitanti la proprietà privata ha qualcosa di solenne, come quando si guarda lo scheletro rimasto di una cattedrale. Vorrei indugiare, gli occhi aperti al gioco della luce sull'acciaio, ma qualcuno, dietro, mi suona il claxon, diretto alla sua vita.

Giù, giù fino a Marconi, poi giù fino a bermi tutto il Lunapark colorato immerso e ritagliato nel buio (non ci sono lampioni accesi nella passeggiata che costeggia gli impianti, da anni), con la sua ruota panoramica dalle luci ferite e mancanti che gira senza persone, come in un proprio sogno di Las Vegas, ricordando i ragazzi che lì, sospesi nell'universo, si sono tante volte baciati. Addio, addio, un giro dietro il Palazzo delle Esposizioni. E' tardi. Entro nell'onda verde, giù per la discesa. Nello specchietto, sola ad un semaforo, le tre frecce delle corsie brillano sul nero dell'asfalto. In fondo, in agguato, le altre macchine che ritornano. Avanti, a destra, a sinistra. L'ho mai saputo? Via, via, a casa...

Una citazione

The aim of life is to live, and to live means to be aware, joyously, drunkenly, serenely, divinely aware.

Henry Miller

sabato 19 marzo 2005

Ambizione


Liberamente ispirata da questa immmagine di Damiano


Il tuo profilo ha finito per prendere lo spessore del tempo che mancava alla partenza del treno. Si è assottigliato fino a che il semaforo è diventato verde ed il rumore dei dispositivi elettronici della motrice è aumentato fino a diminuire. L’ho ricordato mentre ti allontanavi; proiettato sui muri delle case e le scale della metro, insieme al colore dell’ombra tua, unico per me tra i tanti colori delle ombre - sfumato nelle mattine, quando ci prendevamo un caffè e partivano brusche risate e sorrisi a sguardo perso – e che trascina, ora, una coda formata dai limiti fisici delle cose che abbiamo visto, toccato, condiviso.

La direttissima e te si allontanano senza interruzioni. Le strade verso S. Casciano, nel pomeriggio rossastro, costeggiano seminativi e vigneti, ville e casette mute nella dignità contadina, scuole che domani mattina saranno piene di risa, e mi sento un intruso. Questi spazi sono più adatti a te, fine ed attraente, che assorbi la luminosità dei tramonti. La cittadina dorme un sonno medievale minacciato da grandi palazzoni, ma dentro le mura nulla esiste se non il silenzio che le macchine provano a sporcare. Guardo i tanti bignè della pasticceria: ogni sfumatura della crema ha un corrispondente esatto, un inquadratura staccata ed ingrandita, liscia, della pelle sotto le diverse luci del giorno o della notte. Scendo verso la strada, mangiando, le labbra inzuccherate.

Il sole timbra il cartellino e si lascia andare dietro Orvieto, stanco, alla notte. Dentro me c’è una terra di nessuno, dove mi tuffo in quel secondo che mi prendo prima di formulare una frase, di rispondere ad una domanda. Quel secondo fissa la luce di quell’istante. La terra è affamata.

giovedì 17 marzo 2005

Attesa e ripasso

Ma quanto devo aspettare? 62 giorni ancora?

martedì 15 marzo 2005

Se dovessi cadere

Anziché scendere, l'ascensore comincia a salire molto molto lentamente. Trattengo il respiro e sento come i miei piedi si ancorano a terra ed il mio corpo si fa pesante, in un inconscio voler rovesciare la direzione del moto. Forse posso arrivare al piano di sopra, aprire la porta ed uscire? L'ascensore sale a mm al secondo, una velocità paradossalmente infinita, e finalmente si ferma a metà tra i due piani; non posso uscire né scendere e mi attacco all'allarme. C'è un aria di dopo pranzo, un silenzio di piante, sento il sole stiracchiarsi morbido nelle scale. E io lì, sospesa nel nulla. Sono anche spazientita. Alla fine sento le voci gli ascensoristi che da due giorni provano e tarano il funzionamento del motore dipinto di un blu Klein, nuovo di zecca.
- Allora?
- Scenda!
- Ma come scenda? Questo sale!
- Adesso vengo su io. Prova a farla scendere! - dice una voce ad un ragazzo che ho intravisto acquattato vicino al motore.

Ripremo 0, e l'ascensore ricomincia testardo a salire. Non lo sopporto, la mia razionalità si ribella e mi sprona: "sono due giorni che stanno lì, che incapaci, nemmeno riescono a farlo funzionare"

- Sale ancora!
- Falla scendere in manuale - dice quello di prima, e l'ascensore finalmente scende. Devo spiegare ogni movimento che ha fatto, sono tutti molto seri.

La strada è piena di luce, corro a prendere la macchina che parte come un motoscafo nel traffico. L'obelisco di Piazza S. Giovanni sfida un cielo ridente di nuvole nuove. E' troppo presto per il mio appuntamento: perdo tempo girando nelle strade dietro all'ospedale, sbirciando gatti sornioni su rovine malnascoste e meccanici ingoiati dai cofani di macchine con i lampeggianti spenti, miti nel pronto soccorso di un officina.

Giù per la strada dei Santi Quattro, evitando i tombini e senza toccare il freno fino alla fine. Non sono che una bambina che esce alla primavera e vuole giocare... L'abside imponente, le finestre segrete del convento m'incombono mentre guardo le facciate delle case, nelle stradine, alla ricerca dei balconi arrotondati di travertino, degli anni 20, misti ai mattoni rossi o agli intonaci pastello. Da un camioncino un uomo dell'est (da quale est? quanto è lontano il suo?) scarica legna da ardere. Un groviglio di motorini. Quattro turisti biondi, che guardano ognuno da una parte, fermi all'angolo di San Clemente.

Sulla via di San Giovanni in Laterano, in salita, si affacciano tre o quattro balconi dai palazzi riccamente decorati. Uno solo, elegantemente arrotondato, fissato ad una parete ritagliata, perfettamente conservato e ben dipinto, non ha dietro una casa. Si affacciano soltanto le trasparenti immagini che scorrono ai miei occhi mentre ci passo vicino, gli alberi anonimi, le pareti misteriose di un appezzamento sgombro; ci si posa qualche passeretto. Ma io la vedo, la voglio vedere: uscirà, a guardare la strada, una ragazza giovane, dai capelli scalati; aspetta, per sempre, un amore promesso...

lunedì 14 marzo 2005

Una citazione

Non so raccontare una storia senza distorcerla. Per dirla tutta, sono un contaballe nato. Ma del resto cos’altro è uno scrittore, anche se alle prime armi come me?

Mordecai Richler, La versione di Barney

domenica 13 marzo 2005

Quando ti fermi a guardare in macchina

Nella notte, piegata sulla tastiera, ascoltando un tango slavato, scarno, che mi china la testa come fossi un tulipano la cui materia, densità dei giorni vissuti, non vuole ancora sfiorire... Io, sempre in mezzo al frastuono, che persino nel silenzio ho bisogno di guidarmi veloce, attacco una scaramuccia con me stessa come continuamente: finto, sfido, tocco dentro, spietata. Non cessano i pensieri, continuamente esternano voci gesti e persone, ma non posso più ridere per la gioia di ricordarti, né disegnare con le mani i tuoi contorni. Non mi basta.

Un’attesa paziente, lucida, accresce il desiderio. Bisogna resistere all’amore per conoscerlo. Quebrar quando i cuori sono troppo vicini; aspettare alla fine del binario 17 – il più lungo di Termini, oltre il quale ci sono tutte le destinazioni - sempre pronti a prendere un qualunque treno di passaggio per il lentissimo oblio, per la sconfitta ed il posare di quel bruciare che mantiene in vita più, oltre, del semplice circolare del sangue. L’attesa non è che un dominare, un arginare senza spegnere un appetito, in modo che al suo compimento, che è comunque l’obiettivo finale, produca un insostenibilità assoluta della sensazione, da potersi portare - contrariamente a quanto dice il vangelo - dall’altra parte della morte.

- Vai, vai più veloce. Brucia queste frasi, sconnesse.

Ricrearti di parole e non di carne e sangue. Che cos'è alla fine quello che faccio, se non fare e rifare l'intero mondo mio, credere di fissarlo per poi allargarlo nel tempo? Che altro se non voler conservare, per sopperire alla mia assoluta mancanza di memoria per il passato? Non so cosa era ieri finché non l'ho consegnato ad un supporto fisico. Non so cosa ho sentito finché rimane in me, sconclusionato. Non saprò se ti ho amato finché
non
l'avrò
SCRITTO.

sabato 12 marzo 2005

Un pomeriggio di sport necessario

Mi sono già espressa qualche volta su quanto e perché mi piace il rugby. Vedere oggi i miei amati “bleus” piegare, non senza immane fatica e dunque rispettando un contrario fortissimo, i favoriti irlandesi - giocando insieme con un clima simile al quello in cui sono cresciuti la maggior parte dei loro giocatori migliori, quel sud-ouest sotto i Pirenei, umido e freddo quanto il paese del quadrifoglio - è stata una immane goduria. Lo straccio dei piatti in mano, i capelli raccolti, l’ennesimo caffè e qualche pezzetto di cioccolata mangiato distrattamente, presentavo un’immagine di casalinga dematerializzata ma carne e sangue sul campo, ammirando il meccanismo perfetto di una partita splendida (lasciando stare qualche scorrettezza da ambedue le parti). Il mio computer delle traduzioni, stava là muto, impaziente.

Poi, un pezzetto di Costa Azzurra con le spiagge pronte alla passeggiata, che scorrevano a destra dei ciclisti impegnati nell'ultima tappa della Parigi-Nizza , mentre a sinistra c’erano i binari che ho percorso tante volte in treno di giorno e di notte, digrignando sempre i denti dall’invidia perché mentre ovunque, a dicembre, c’era freddo, pioggia o neve, lì non ce n’era mai… E intanto scrivevo qualche riga, maiuscole e sottolineate, nomi e numeri.

Mezz’ora dopo, alzati gli occhi da uno schermo per posarli sull’altro, ho trovato gli italiani che tenevano come leoni una squadra di annoiati inglesi, mentre ogni tanto si vedeva il loro coach ripassare dei veri appunti tattici su un agendone. Ho spento e mi sono attaccata alla tastiera come fosse una mitragliatrice, a testa bassa. Dopo un ora ho riacceso e visto per un pochetto gli immani buchi da dove passavano, spesso fino a meta, i perfidi gentlemen. Fino-alla-fine.

Che fare? Ci vuole il cilicio? No, mi sono detta. Ed ho cucinato un tortino di alici, cosparso di salsa con un cucchiaio di legno...

venerdì 11 marzo 2005

Gente come me

Io non ero lì, quel giorno; ero al lavoro, come oggi: … oggi RICORDO.

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giovedì 10 marzo 2005

It's only a little blues, but i like it


verso dove Posted by Hello

Oggi....
amici assenti
telefoni occupati
strade noiose
visi di legno
cielo inospitale
semafori rossi
nessuna conferma
silenzio assoluto

e io che avevo tanto bisogno di sentirmi importante.

mercoledì 9 marzo 2005

Corteggio il caso

When the moon peeks over the mountains
I'll be on my way.
I'm gonna roam this old highway
Until the break of day.


Charles Segar and Willie Broonzy, Key to the Higway


Oggi, una fretta particolare ci stava a tutti sulla schiena, per le strade. Ma no, via, forse sono stata io, che punzecchiata dalla chitarra di BBKing andavo quasi volando, evitando i soliti furgoncini ed i motoristi ricoperti come inuit sulle slitte. Correvo, piuttosto scivolavo, sempre con quella sensazione inebriante di dominare una macchina, che quasi ti sembrerebbe obbedisce ai tuoi minimi pensieri. Poi, entrando in centro, la quasi immobilità di un giorno senza mezzi pubblici.

Non mi preoccupo, non mi stresso nel traffico, nelle file immense causa scioperi, cortei, semafori che vanno in tilt, macchine della polizia ferme e lampeggianti a bordo autostrada. Vado con gli occhi aperti tornando a casa, in mezzo alla anche mia Chinatown dell’Esquilino, lasciando passare con un guizzo di volante i motorini che scivolano nel nostro groviglio come sabbia; ammiro un autobus rosa metallico fermo come uno scarabeo, e mi emoziono per un papà cinese, dalle scarpe molto lucidate, che mi passa davanti in una diagonale nervosa, che porta un fagottino microscopico, sotto una coperta, che guarda dal buco dentro, che mette dentro il viso a dare un bacio tenero e così facendo rende lo spazio tutto intorno di un rosso amore, di un oro vita. Guardo le facce degli altri, incontro i loro sguardi, conosco i loro gesti, seguo macchine modificate, lentamente mi immergo in un sentire animale, in un fiutare dov’è la strada sgombra, spengo ogni ragionamento o sentimento e lascio soltanto fluire la musica dentro, fino a quel dentro dove non esiste nemmeno la regola, finché non sono una con il mondo lì ed allora. Non importa l’ora del giorno (nella notte è ancora più forte) in cui si verifica questo cambiamento, in cui questo sentire tutto mi ricompone e lenisce i danni prodotti dal cozzare con le vite altrui, senza fondersi né condividere.

In tutto questo viaggiare tu, che sei la mia terra di arrivo, tu che ogni giorno vivi la tua giornata in spazi dove io non ho una materia - se non quella dei sogni, del caso e della fortuna - mi stai ovunque, mi accompagni. Sento quel richiamo che mi porto dentro, lo stare sdraiata sulla terra calma dei pomeriggi d’estate, ricaricata di essenza della vita dalla schiena fino al cuore. Quanto sei, non ti posso raggiungere… e arrivata al mio porto, la pelle indurita da tanti e tanti cabotaggi di poco guadagno, aspetto ancora un attimo, trattengo il respiro, prima di spegnere la musica, prima di scendere dalla macchina, in mano la corda che mi lega a te.

Se non l'avevate capito

2001: Odissea dello spazio è, ad oggi, il mio film preferito in assoluto. La prima volta che lo vidi, ero in prima fila, e quando mi venne addosso tutto quel frastuono di colori, suoni metallici e immagini solarizzate che precede la parte più ermetica del film, credo di essermi completamente smaterializzata. Ho anche letto il libro di Arthur C. Clarke, e mi sono fatta una mia interpretazione di quello che poi Kubrick mise su pellicola. Ma se per caso qualcuno non ne avese ancora completato il puzzle, questa mi sembra una buona spiegazione...

Mettetevi comodi. Ho trovato la perla in quest'ostrica, il blog di Vittorio Zambardino.

martedì 8 marzo 2005

More than a woman

Cammina con me, sorella. Noi non siamo di quelle con le belle gambe snelle, il pancino inesistente, i capelli lucidati e il viso sapientemente non-truccato. Nulla di light nella nostra vita: niente diete a zona, niente sacrifici, nessun ritegno. Non c’è bisogno, dico, di darsi la mano. Noi donne non ci amiamo. Possiamo però, sì, camminare insieme, seguire una traccia di blues del Delta, disegnarci negli occhi l’acqua di un fiume. Scolarci tutta la bottiglia e ridere, o non scolarci che la cioccolata e ridere. La nostra highway parte tutti i giorni, non soltanto oggi: percorre tutta la terra, ci trova nella notte attonite ma intere, vincitrici, anche, della paura e della morte.

Teresa de Avila
Esther Lamandier
Lauren Bacall
Ninon de Lenclos
Marguerite Yourcenar
Georgia O’Keefe
Esther Tusquets
Marie Curie,
[ognuna di noi ha le sue]

camminate con me.

lunedì 7 marzo 2005

Net to be_anche le fruttarole

Vedete che ci ha prodotto, fresco fresco di Torino (uh, curiosi, leggetevelo da lui): R:ob Grassilli

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domenica 6 marzo 2005

Ascolta il cielo

Ho fermato la macchina, una volta arrivata qui.

giovedì 3 marzo 2005

Luci bianche nel cielo


Storni a Piazza della Repubblica Posted by Hello

Non temo i temporali. I lampi, i tuoni, la frustata dei cieli sulla terra, lo scrosciare della pioggia. Correre sotto la pioggia, senza ombrello. Trovare un rifugio qualunque, anche una pensilina, e lì dentro sentirmi preistorica, come chi guarda dalla grotta quando la primavera è alle porte e se ne sente l’odore. Sentire il temporale da casa, mentre scrivo e anche mentre sbrigo tutte le faccende: mentre passo l’aspirapolvere, faccio i piatti, appunto una nota, la voce della pioggia entra in me e richiama le immagini e le frasi, ricordi e visi che ho perduto nelle strade, pomeriggi di scuola. Ma anche baretti fumosi, tempo perso nei portoni in attesa che smetta di piovere, il mare in tempesta, non saper dove andare, guardare al cielo perché non avevo altro da guardare. Ascolto il grande basso dietro le nuvole rotolare una interminabile nota come fosse un gran masso, per poi scagliarla giù un secondo dopo il lampo. La terra assorbe, cieca. L’asfalto no, purtroppo; nessun odore selvaggio mi ritorna quando esco dalla metro, per strada, e la città mi ferisce inzuppandomi i pantaloni fino al ginocchio. Nemmeno quella sensazione di tenere in mano l’elettricità, come quando da piccola vedevo i lampi scagliarsi lontano, avvicinarsi a poco a poco finché mi toccava rifugiarmi in casa, sotto un buon parafulmine. Soltanto gli storni, a cui nulla importa, continuano a danzare su Piazza della Repubblica, lasciando fugaci, ipnotiche, macchie nel cielo.

mercoledì 2 marzo 2005

Andante, moderato

Questa mattina ho guidato sulla corsia di destra, contrariamente al solito, ed in terza. Sono uscita dopo due giorni di starmene a casa isolata da tutto e quasi senza televisione, maledendo i produttori di imballaggi che mi costringono a perdere il mio tempo in un riciclaggio malsano e diseducativo, un accumulare soprattutto di plastica. Persino i lecca-lecca sono prima imballati e poi inseriti in un altro imballaggio che contiene una testa di giocatore di calcio, nella sua plastichina, e una scheda plastificata, che non è né carne né pesce, il tutto inserito dentro un altro foglietto di plastica ultracolorata, che si appiccica alle dita causa elettricità statica. Come lo spam della posta elettronica, questa invasione mi toglie del tempo, e alle volte mi vengono voglie da Mr. Hyde di bruciare tutto in un falò direttamente davanti alla fabricchetta indicata nell’involucro… Uscita fuori come chi esce dall’ospedale, ho avuto l’impressione di una città tutta nuova. Uno schiacciante sole tiene al collo la città, ed il freddo pungente di questi giorni mi ha preso alla sprovvista. Con i polpastrelli congelati sono partita alla volta dell’autostrada, concentrata sulla musica e sentendo contemporaneamente un pungere alla pancia per non saper suonare, perché sono sicura che colui che suona uno strumento trae dalle vibrazioni prodotte dalle note una vita che ai non suonatori è preclusa, anche quando si è perfetti ascoltatori, o direi piuttosto, cannibali assoluti di sensazioni.

Non potevo, romanticamente, non immaginare Mr. Bach seduto al suo clavicembalo (forse anche lui, come descrive così bene Concetta, preso dal respiro di una domenica mattina, prima o dopo la messa, non lo so), aspirando gli odori ed i rumori della campagna, a finestra aperta, con un sole forse gemello di questo; ma anche in un pomeriggio di pioggia in cui la tastiera è come una pagina bianca sulla quale scrivere un diario di sensazioni. In camicia, o con una vestaglia, riporta sullo spartito e risuona e riscrive e risuona e gioca intorno ai tasti lasciandoci sopra la leggerezza, la luminosità di gioiello delle Variazioni Goldberg.

martedì 1 marzo 2005

Una poesia (sull'amore ed il gioco)

Fortuna maledetta,
che prometti di cavare gli occhi ai miei nuovi amori
- tutti coloro che discreti ora mi stanno addosso -
prendo l’ultimo dolcetto di questo tè con le paste
imbastito come un dernier adieu, e confesso.

Ero sì forte al gioco, e fu per questo
che pensai di essere immune alla passione,
ero libera e facile al capriccio all’incasso:
finché fui di fronte a lui e mi disse
che di questo non era per nulla lusingato.
- Come? Non vuoi che vinca? Non t’importa del lusso?
- Mi annoio, mon trésor, cambiamo lo scenario.
Allontanata presto dal calor delle carte,
mi gettai in un altro calore, poi nel ghiaccio
di mattine sospese, in cui l’uomo è cristallo
all’alito sottile di un corpo più flessuoso.
Meditavo, parbleu. Mi feci un solitario.

I rumori felini delle carte prendevano
l’aria di una ouverture,
e da lì fu al volante che andaron le mie mani,
poi, sulla Corniche…

Non è difficile trovare giocatori incalliti,
schiavi dei polsini immacolati. Ma vincevo, oltretutto.
Non si può, dunque: ricevetti il tuo invito.
Son vestita di sacco, in omaggio ai rovesci
che mi tieni già pronti sotto i pizzi e le trine.

Fortuna maledetta,
lasciami almeno intonso un giocatore squallido,
che non sappia nemmeno contare con le dita,
che nemmeno si accorga del color delle fiches
in quest’ultima mano…
Poi sarò amata. E vinta.

Cough-and-laugh

Questa casa è di nuovo la Banca del Raffreddore.
Ma quando finisce questo invernaccio???

"Mio Dio, dammi pazienza... Ma dammela SUBITO!"
© Les Luthiers, libera traduzione