martedì 2 febbraio 2010

La solitudine del non saper fotografare il tramonto



(Appunto.)

Dalle strade si vede il tramonto. Non è diverso in sé, lo guardo tutti i giorni: sotto la pioggia, o distratta, oppure mentre mangiucchio una barretta al sesamo, là dietro il SUV evitato, qui fuori dal supermercato. Eppure certi giorni d'incendio come oggi devo fare attenzione, concentrata sui gesti quotidiani; gli occhi se ne vanno a fotografare in velocità ogni millisecondo, ogni variazione di colore, ogni riflesso rame, rosa, ambrato di grigio, con i bordi gialli, bordeaux sulle rovine, piano bollente sui vetri degli edifici, striscia di taglio sui pali dell'alta tensione. O le nuvole basse, come rotoli di antracite, con sopra strade rosso cupo senza fine. Poi il tutto precipita in un baratro dietro l'orizzonte della città. Kaputt.

Un momento di sospensione. Le case tengono il respiro dietro persiane e tende. Noi dentro le macchine mordiamo lo spazio intorno, ciechi come pesci abissali.

Poi si cominciano ad accendere le finestre, prima timidamente; poi, siccome la notte arriva a ondate implacabili, vinto il giorno che spira in un ultimo grido di giallo brillante, tengono un ritmo non diverso dal battito di una natura artificiale, estrema. E ora sento il rumore, e scappo schiacciando le buche sotto le ruote. Le luci dei fari strisciano oblique sotto il metallo della tangenziale.

Sbircio le strade laterali in salita, che finiscono dritte nel cielo di un viola disfatto, ancora non nero; e mi prometto, seria come quando ero bambina e non sapevo nulla di appuntamenti mancati né di cieli promettenti: "la prossima volta vai". Guido piano, vado altrove, con il groppo alla gola, la sensazione che era lì che dovevo andare, perché era lì l'angelo, o la palla rossa perduta, non so; ma qualcosa.

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