giovedì 29 settembre 2005

Esterno scarno


Fontane di Piazza J.F.Kennedy, riflesso notturno

Un tempo fummo amici. Ma amici come piume attaccate ad un albatros, amici come binari di fornte al mare, percorsi dalla gioia dell'estate. Le sue giornate come flussi di programma, così ramificate, avevano con me quei punti di contatto che sono più dei baci e dell'amore: sorridevamo insieme, accolti, complici. Ma la mia vita è entrata adesso in una sua inquadratura da foto ricordo. Sono lì bellissima, ferma e perplessa, non volendo sentire il crescere di un rumore interiore di tristezza e di rabbia; sono lì, la tazzina di caffé a raffreddarmisi nell'incavo della mano, e lui che se n'è andato in un altro scompartimento del treno che ci portava insieme, una scusa qualsiasi e non c'è un più.

Che sono poi gli amici, mi dico mentre un vento che voglio gelido entra dai finestrini della mia personale galassia. Non sono altro che un non sentire il freddo, sono quella vertigine che ti stacca dal vuoto, il libro dei libri dove penso e dunque esisto. Sono un pensiero che ti assale nella notte e produce un'emozione così forte che potresti chiamarla passione. Ma capita che il cielo decida di rovesciarsi, una tangente della vita ci allontani , e io rimango lì svuotata per un tempo più breve o più lungo, chiedendomi se ho sbagliato - e che cosa significa sbagliare - e utilizzando come scongiuri parole forti in tre lingue diverse finché mi stanco così tanto che posso riprendere a vivere.

E saranno altri amici. Quanto è grande la mia città interiore così tanti sono gli angoli da dove li vedrò apparire, ognuno con le sue estremità e quella luce bassa che mi confideranno. Ci penso mentre cammino di corsa, nella folla del centro, angolosa, stressata, consolandomi.

martedì 27 settembre 2005

Lontano Nord

Non sono riuscita ad andare nella città che ho sempre sentito come la più vicina ad una me invernale, severa e caffettiera: Torino. Le sue strade interminabili, la nebbia che abita sotto le foglie, la Dora e Stupinigi, i tomini come le ciliegie, l'ascensore della Mole, la Peyrano, mi ispirerebbero post non meno appassionati di quelli che alle volte scrivo su Roma, la mia Calcutta personale, croce-e-delizia.

Ma so che se c'è una cosa che i bloggers siamo - anche quelli non totalmente geek - è voyeurs, nel senso di curiosi.
E dunque pure se non ci sono andata, mi posso impicciare di tutto.

lunedì 26 settembre 2005

Big City


City lights
(La foto è di Damiano)

Da grande volevo fare il tassista. Volevo portare donne chiacchierone e uomini taciturni mentre fuori una nuvola autunnale, soltanto lei a coprire l’orizzonte, si riempiva di arancione e di rosa come un mucchio di fondant colorato a goccia a goccia. Avrei schivato il traffico e portato a casa nonne e bambini e coppie litigiose mentre la notte sottraeva il rosso al tramonto fino a farlo diventare sempre più viola e poi di un nero slavato dai lampioni e le insegne. Sarei andata giù per la Tuscolana o la Tiburtina, tratti da rally urbano nei quali il volante oscilla nell’evitare a destra e a sinistra e davanti gli squali che si buttano in pista come biglie impazzite. Sarebbe scesa la notte, scivolando sullo stesso piano temporale dai quale i piloti vedono salire, dalla terra che loro stessi avvicinano, la fluorescenza del traffico, mentre gustano per primi i calore che l’asfalto rende come un marchio d’identità per tutti color che si muovono insieme. Là sotto i motorini sarebbero guizzi bianchi, tracce di una domanda che gela e poi riprende il flusso interminabile: adrenalina… Cercherei. E tu staresti all’angolo di via del Quadraro, sotto le case dai lunghi balconi bianchi e le facciate da Mondrian semplificato, sfumato dalle luci aranciorosate di una ricostruttrice di unghie: le ragazze, da dentro, mentre si asciugano le french nails, ti guarderebbero sognanti. Faresti un gesto solo, come a svegliare il guidatore dell’autobus, e io mi fermerei vicino, come una barca che accosta.

- Non ho una vera destinazione.
- E i soldi?
- Non è un problema.

Avere un complice, che mi passa delle strane cassette da ascoltare, mentre fuori parlano le diverse misure delle luci. La musica è un virus, una pelle che ci scambiamo. Perché la notte è casa mia, nelle sue stanze canto e ballo e soprattutto guardo, dentro le case e le macchine: vedo la gente del mio sangue che guida come me, il gesto lieve, un eleganza animale. Guiderei senza meta, finché lei non mi buttasse finalmente fuori, come fanno le lenzuola dopo un vero, gustato dormire. Perché nella notte tu ed io abbiamo lo stesso sangue. Tutto batte allo stesso modo. Pedoni, semafori, la riga bianca sotto il mio pneumatico sinistro, le luci degli aerei. E il rap esce dalla radio come una febbre. Affermare con la testa, con le spalle, con le dita: capelli indietro, avanti il bacino: sì.

giovedì 22 settembre 2005

Materiali non friabili

Il traffico di Viale Liegi, costretto dai cordoli a ondeggiare e restringersi, è nervoso finché non si arriva al semaforo che immette in via Aldrovandi. Lì qualcuno ha progettato le curve più morbide di salita e discesa di un colle che non è tra i grandi sette, ma che non per quello lo è di meno: gli alberghi sono cloni di CostaAzzurra, con le loro buganville, i pini, le facciate che richiamano un mare che non c’è, che è lontano, rintanato ad Ostia a rimuginare l’estate. Arrivata nella discesa che costeggia il Bioparco, vedo un uomo anziano in una chiazza di sole. Scende in mezzo all’erba, vestito di nero, un po’ trasandato, la chioma bianca: mi ricorda le foto di Monet da vecchio. Piazzale delle Belle Arti è uno slargo, vale a dire, un momento di riposo e di riflessione prima di andare avanti, o indietro, o altrove. I tram stanno insieme ricurvi sui binari come cannolicchi colorati di una collana dimenticata al sole. GNAM, un’onomatopea di fame e di mangiar bene che in realtà poggia su un edificio bello ma sfortunato: soltanto un piccolo cartello annuncia la mostra. Nessun telone colorato e costoso. Attraverso le porte sulle quali si avvinghiano serpenti e nastri di legno, sbiancati dal tempo o da una troppo energica pulitura.

A me Boldini piace ma mi disturba. Il suo cinismo traspare nella pennellata sprezzante del pittore dalla tecnica inattaccabile, che prova ad imitare il tratto di Velázquez, ma non ci riesce, e deve non-finire in turbinio e tratti sfumati verso l'esterno: un gesto che non riesce a rendere più personale di così. Ma i visi sono perfetti, le donne e gli uomini sfrontati e carnali nella loro bellezza, sotto una luce disemotiva che nulla rivela se non il trionfo o l'orgoglio. La resa dei nastri, delle scarpe, dei gioielli, dei tessuti d'arredo, simboli della ricchezza, è stupefacente. I pastelli, che non gli permettono i grandi gesti agitati del pennello, sono di grande morbidezza, concentrati. Sono i soli quadri in cui sembra che non c’è insoddisfazione, oltre ai due splendidi ritratti di Verdi. E i primi, piccoli, sono vere fotografie, nelle quali i dettagli sono materici: i gioielli, il lucido delle scarpe, il pentagramma, il tessuto delle sedie, le pieghe e luci e ombre dei tappeti. Ma nessuna umanità, nessuna compassione, nemmeno nel proprio autoritratto da settantenne.

Mi domando se Gnoli o Bacon avranno mai guardato questi quadri. Dell’uno mi ricordo la resa eccessiva, la parodia del particolare come centro del quadro. L’altro poteva riconoscersi nella violenza delle pennellate turbinanti, che alle volte distruggono l’insieme, lo feriscono e lo lasciano sanguinare in una piuma, in una rosa che ci ferisce dentro, là dove nemmeno ricordiamo di avere una ferita... Entro nella libreria e mi perdo per un ora nei libri che non posso o che non voglio comprare, e ritorno sotto tappeti interi di nuvole, che sordi alle richieste dei raggi solari, gravavano da due giorni sulla città. La luce tenta in tutti i modi di bucare il manto sotto il quale si è nascosto il cielo. Ogni tanto scendono delle linee lattee che si fermano un po’, inconsistenti chiazze, e poi spariscono. Il chiasso della luce soffocata. Alla fine tutto il cielo si è mosso nel brivido violento del temporale, come un ascesso di tuoni e di pioggia rabbiosa, che tutto ha zittito, e soltanto il rumore da tessuto strappato che fanno le mie ruote sull'asfalto bagnato mi ha accompagnato a casa, gli occhi ancora schizzati di oro e panni neri..

mercoledì 21 settembre 2005

Noterelle_3

Io, che sono curiosa fino al ridicolo, volevo andare a vedere i Flaminio Maphia all'EurVillage.
E volevo (ancora vorrei) andare a Parigi.

Ma mentre traduco gli statuti di una srl, ho già fatto la mia scelta di oggi. Tradurre.
E a Parigi... sono d'accordo con lui. Ma l'idea ronza (no. Che verbone...), mi fluttua intorno come una farfalla o come i tentacoli di un'attinia... Mi posso seguire l'evento via wiki, e andare in giro nell'inverno parigino... Versailles sotto la neve, mmhh....

martedì 20 settembre 2005

Tirare verso l'alto

Una ragazza su una Micra azzurro metallizzato manovra per uscire dalle righe blu vicino al marciapiede. Davanti ha un cassonetto. Si sente un craac. La ragazza esita, dentro all’abitacolo. I movimenti sono dubbi. Io sto aspettando il verde con i vetri abbassati e la musica alta come sempre. Nuvole enormi si riflettono, nelle vetrine, sbiancandole. La guardo con la solita mia intensa curiosità, che produce spesso gli stessi effetti: lei si offende quasi subito, un aggiunta alla rabbia dei dubbi che bollono insieme nel fegato. Esce a vedere se ha rotto il faro destro o che. Porta un vestito di lino rosa sulle calze color carne, opache, e sandali col tacco alla LouisXIV. Occhiali scuri, occhi duri, la mia personale Regina di San Giovanni controlla e rientra nella macchina, la tiene ferma nella salita con un nervoso freno-frizione e intanto ci guardiamo: quando lei mi guarda io allontano lo sguardo e fatico molto a non ridere, purtroppo. Mantiene un’espressione corrucciata. Alla fine, dopo vari scambi di occhiate e stoccate, lei abbassa gli occhiali a sotto il naso, irresistibilmente burina, e mi guarda con due occhi di brace: è proprio come una bambola e io mi diverto. Ma se scendesse e venisse verso di me, a maltrattarmi? Uh. Il semaforo diventa verde lontano lassù e la faccio passare, do' un occhiata per terra in attesa di ritrovare i vetri di qualcosa che invece è una bottiglia di plastica verde: schiacciata, vinta e curvata con l'esatta forma del pneumatico destro.

Affronto la tangenziale come al solito. I miei livelli, oggi, sono bassi, ma sorrido. Sotto le curve, un groviglio di linea e binari, nel quale due-tre treni sembrano annaspare. Tiro su con il naso, interrogo il cielo. Le nuvole si dispongono formando un solitario da divinazione: grandi nuvole, nuvole a striscia, lievi tratti grigi, pecorelle smarrite, stracci che sembrano portare via pezzi del cielo, stracci che sembrano resti di pomata sul cielo dolorante, tutto il ventaglio dei significati. Ma sopratutto i cumulonembi m'impressionano. Con quel nome da mostro delle fiabe, orco gigantesco che abita in cima al fagiolo magico e che lancia uno dietro l'altro gli aerei nel cielo, seduto sulle grasse terre dietro il GRA. San Lorenzo odora di caffé, oggi. Da una finestra un uomo si sporge di fianco, come a dare una spallata all'aria del mattino. Fuma e guarda lassù, poi si gira a sentire qualcuno che ha parlato, dentro la stanza. Guido larga, evitando i gardrail. Lui ritorna, le mani appoggiate sul davanzale, il mento puntato verso le nuvole come una prua...

domenica 18 settembre 2005

Blues for eating the black


Notte Bianca 2005: Les Fous de Bassin, Laghetto dell'EUR

La pioggia e l’autobus che non arriva sono già una conversazione in se stessi, un alibi per chi è solo in quel tempo di attesa. Aspetto un autobus verso l’Eur. Ombrelli e luci strisciate, gli autisti che passano nelle loro bolle appannate. Un ombra nera si raccoglie sotto il ponteggio dove mi sono protetta dall’impietosità del cielo.
- Scusi, quando passano qui, gli autobus? Non ne so niente, mi si è rotto il motorino sulla Tuscolana e devo tornare a casa…
- Bella iella.
- E dire che venivo da Prati.. sono zuppo…

Devo resistere, non ridere troppo dell’umanità alla quale sono disabituata. Sarebbe come ridere di me stessa e il mio SuperIo non me lo permette mai. E’ così buffo, sincero e non distante, tutto di nero vestito, occhiali e codino: un’ombra della mia generazione, con una busta di plastica bianca in mano, le cose che portava nel bauletto. Scivoliamo in fondo all’autobus che ci porta dentro i suoi vetri appannati. Parliamo di tutto e di niente, ridiamo. Rispondo sincera. Ama il 600 veneto. Io le nature morte del 600 spagnolo. Scende a Piazza dei Navigatori. Non ci vedremo mai più.

Piove, piove. Dopo le macchine ed i fuochi di artificio - sola in mezzo alla gente che fa mesti “ooh”, bagnata fino ai capelli, mentre io divento bambina, gli occhi spalancati e le cellule della meraviglia aperte, gridando come sempre ad ogni lancio di stelle colorate, piena di luce fino agli orli della ragione - sosto dieci minuti all’incrocio tra la Colombo e viale America. Chissà per quale effetto atmosferico le nuvole sono bianche e il cielo blu: la notte non è nera, e dunque non è rifugio. Vado verso il centro, ma rinuncio. Piove troppo. Ho bisogno di calore e di un caffé duro, senza zucchero.

La solitudine è come la malaria: a periodi di crisi subentrano altri di calma. Nella febbre, vedo avvicinarsi le ombre degli incontri spezzati o fortuiti, l’incompiuto che richiede una risposta. Nella calma, ne dipingo la memoria..

giovedì 15 settembre 2005

September morn

Settembre è il mese in cui per svegliarmi ci metto di più. Ci metto così tanto che ho il tempo di sentire come ogni muscolo ed ogni elemento del corpo ritornano dolorosamente dal sonno. Mi sento tutta confusa, imbozzolata in qualcosa di ritorto e confuso quanto i capelli; le dita delle mani ricordano i tempi dei geloni, si accavallano come per proteggersi; i fianchi arrotondati non vogliono scollarsi dal bacio del lenzuolo. Scendo dal letto e i piedi ballano un pas à deux incoerente finché capisco che mi sono messa le infradito a rovescio, e mi precipito in cucina. Il caffé di settembre è il migliore, perché è il sapore che prova a vincere una sconfitta fisica con percezioni di puro piacere: dolce, amaro, bollente, profumato. Fuori è umido e pulito. I panni stesi in cortile provano un'imitazione casalinga dei panneggi delle statue del Bernini. La pittura sugli infissi non è completamente piatta. Ci sono piccole gocce, gobbe e rientranze. Lì il sole si è posato e finge che l’ha fatto su gocce di rugiada. Il mattino è come il tramonto: il sole mi chiama per offrirmi profili e ombre crude, superfici che mi danno un immediato conforto nella loro bellezza. La città tutta sta raggomitolata al limite della notte, restia quanto me al risveglio. Un solo secondo di consapevolezza di me stessa. Poi la finestra ritorna ad essere finestra.

Le mattine di questi giorni sono un regalo del mare. Come in una chiacchiera tra amici in cui cresce una corrente di entusiasmo, il salmastro si spalma per le strade e i terrazzi; una vernice finale continua, che snobba le case e le lascia all’addormentato sole, alle tonalità rosa e arancioni dell’autunno a Roma, tanto turistiche. Sull’autostrada invece il salmastro disegna il ricamo della superficie del mare: riflessi rotti e punti di luce di argento ingiallito, che salgono e scendono, e per un momento il passare veloce delle altre macchine accanto alla mia mi ricorda il rumore delle onde... No, via, sono io che voglio estraniarmi dal traffico e dalla routine. Dalla radio escono le note di un bolero (quel luogo dove le donne devono sempre soffrire per meglio amare), allo stesso momento in cui una Golf nera finta e poi sorpassa e frena davanti a me perché c’è la fila pigra di tutte le mattine. Il guidatore, magliettato nero e scuro di capelli anche lui, da’ un pugno sul volante e poi rilassa le spalle con rabbiosa rassegnazione.

Le cornacchie hanno ripreso a fare le naturali telecamere sui lampioni che luccicano come pietre, perché la pioggia li ha puliti. Il cielo comincia a diventare di un blu ceruleo serigrafico. Fatico a respirare, perché anziché andare via a tutta velocità finché mi finisce il gasolio, devo girare e...

martedì 13 settembre 2005

Una sera d'autunno un affamato....



Come la mamma di Mafalda, quando arriva l'ora di cena mi viene la crisi. Allora, mi metto le cuffie e apro il frigo. Di solito qualche ispirazione arriva.

venerdì 9 settembre 2005

Le plus profond, c'est la peau

Mi piace questa ragazza con la maglietta molto bianca, ferma al semaforo, sotto un ombrello porpora. La lascio dietro, sottolineata dall'acciaio umido che va crescendo sui profili delle cose, mentre sta per fare il primo passo sull’asfalto dell’incrocio e insieme legge un messaggio sul cellulare. Nessun altro pedone, niente pizzardoni che passeggiano nelle divise bianche. E’ molto presto, è vero, e sta per piovere a temporale. L’asfalto che lei attraversa è lucido come plastica.

Sulla tangenziale scola l’acqua della prima pioggia mista a qualcosa come sapone, che lascia delle striature bianche. Le finestre sono ostinatamente chiuse. I binari che sotto le curve si aprono a ventaglio sono ostinatamente vuoti. E’ un’anteprima dell’autunno, un trailer silenzioso dello scivolare nella fine dell’estate. Il cielo è coperto da una cataratta di nuvole che vagano dal grigio al nero e ogni tanto sbadigliano in un lampo ed un tuono. Gli alberi del parcheggio diventano piumati al vento, e i loro profili sono come ritagliati su di un foglio di piombo. L’erba, oggi, non la calpesto. Spugna la terra aprendo le sue infinite bocche. Sotto i piedi gli steli si tendono in un'attesa che non ha fretta, ineluttabile.

La macchinetta del caffé dell’ufficio sembra un jukebox, per contrasto con l’oscurità che ho lasciato fuori. Interrogo i suoi led come in quell’attimo in cui si sta per cominciare un videogioco: mi deve riuscire il poker. E con il caffé in mano spengo la luce della stanza, apro la finestra, permetto ai rumori di prendere possesso e sostituire il brusio costante dei computer. Esco al balcone.

Le gocce sono baci freddi che i miei capelli bevono come piante. Mi lucidano le unghie con uno smalto che viene dal mare. Facile per me scorporarmi dalla realtà, voler andare via con l’acqua, in sole sensazioni. Gli scrosci sono come schiaffi e non resisto più. Da dentro mi richiamano risate e scoppi fonetici, che dimostrano come in fondo un evento atmosferico sia bello o intenso da vedere soltanto per un tempo limitato. Non per me, però. Mi siedo alla tastiera, volendo scriverti queste sensazioni e fallendo miseramente. Volevo dirti cose in silenzio, perché il silenzio ci sta a pennello, perché ci ascoltiamo anziché parlarci: in questo c'è una saggezza e un rischio, e non si può essere saggi senza essere anche pazzi. Vanno via le nuvole spettinate, terrorizzate. Vanno via verso te.

giovedì 8 settembre 2005

Noterelle_2

In attesa di andare ad una festa di compleanno notturna...

Un'invito per WordPress all'asta per beneficenza? (buonissima idea di Pandemia)
Che fine ha fatto il BlogDay?
Il podcast? Un po' di spiegazioni qui. Uno di questi giorni ne farò uno...
Una visita a Torino? (via Axell)

mercoledì 7 settembre 2005

Noterelle

Foto nuove.
Questo mi è piaciuto assai (via Lauretta).
Pensare alla Notte Bianca.
Tempo per sentire i nastroni.
Vertigine.

martedì 6 settembre 2005

Please be quiet

Arrivo alla città in aereo e di notte. Mentre mi levo i sandali in silenzio - nella mia stanza, in cui le luci sono basse, di quel colore giallo che dora la pelle e la fa come tremare in quel punto di luminosità che sta prima del buio – ripenso a quel che prima ho soltanto inconsciamente sentito. Il senso del tatto per un microsecondo si accende e mi rimanda il fresco del pavimento. Il caffé esce dalla caffettiera e il latte finalmente non è più uht. Sorseggio e penso e scrivo nella mente a grandi spatolate: amore e dispetto, rimpianto ed assenza, orgoglio. Tutto rimuginato lassù. Di notte il cielo accompagna gli aerei come in uno sfondo da collage infantile: i bordi smangiucchiati di rosa e di arancione, collocati dappertutto da dita maliziose; le macchie sulle ali, schizzi lanciati dalle luci di posizione. Il tempo che fluisce mascherato da nuvole. Poi, un punto e a capo e di colpo, mentre il comandante comincia a virare, vengono a trovarmi insieme al finestrino tutte le luci di Ostia e di Fiumicino, che fanno da frontiera al mare; e la città stesa nella sua fosforescenza viva si muove da lontano, come ad ammantarmi regina, come a venirmi incontro, da un abisso che non è altro che la mia nostalgia.

La pista: una ferita, una matita colorata, una luce che si muove in una foto a lunga esposizione. Il grande giocattolo di metallo scivola come in un baciamano sulla pelle di cemento e asfalto. Uno scroscio di applausi mi fa sorridere: soltanto qui si applaude una perizia che per i piloti è, o dovrebbe essere, abitudinaria. Ma io so che è un esorcismo.

I movimenti della gente nella consegna bagagli – mi levo gli occhiali per rendere l’immagine sfuocata - sono come i grandi gesti di uno sciame. Mi tiro dietro un peso banale di vestiti e spine di ricarica, e l’immaterialità del mare grigio che dorme sotto le rocce per svegliarsi nei temporali del solstizio; sull’orlo dei pantaloni, ancora, è rimasto il verde bambino delle mie montagne che mi riempiono la bocca della dolcezza di un mignon perfetto; e sulle spalle ridacchia la pioggia pigra, inesorabile, dei Paesi Baschi, come una DOP tatuata..