lunedì 11 ottobre 2004

8.17 a.m.

Mi trascino dal letto, cado quasi, sono troppo vicina al bordo, sento il pavimento freddo sotto le mani; dunque provo a rialzarmi ma la posizione è decisamente difficile, mica sono una ginnasta io, allora cado, una ginocchiata non eccessiva, le mani continuano a sentire il freddo delle marmette ed è allora forse che apro un occhio e poi l’altro il tempo e con l’intensità sufficienti per capire più o meno che sono sveglia e sono nella mia stanza, mi agrappo al bordo del comò e mi rialzo, resto in piedi-voilà.
Adesso il bagno. Fuori, ancora la notte. Sono sicura che nemmeno le strade ci sono, non le hanno ancora messe, c’è il nulla. No, non mi voglio guardare allo specchio. Sento il viso tirato ed una nebbia spessa sotto ogni occhio, e questa nebbia non va via con l’acqua+sapone, rimane abbarbicata là, ricordandomi che non devo fare stravizi, che non devo bere tanto caffè, che il vino bianco mi fa venire malditesta e tante altre amenità che sul momento rifiuto di sentirmi dire da me stessa. No, decisamente non mi piaccio, la bilancia interpellata risponde il solito peso, i capelli sono come tanti fildiferro a corona di medusa, la bocca spenta in un rictus che non saprei definire. Procediamo. Una doccia, no. Ho freddo. Pulizia dei denti, etc.
Tutti dormono. Vado verso la macchinetta del caffè, come Nicholas Cage in Via da Las Vegas. Eccola finalmente asciutta nello sgocciolatoio dei piatti. Tesoro mio, ecco, adesso posso aprire la porta di casa di Morfeo, e venire al mondo. Acqua e caffè e fuoco. Apro finalmente gli occhi. Quanto è amaro. E’ una punizione che mi infliggo per ieri sera. Anche i trebiscotti del discount sono una punizione. E non riesco ad alzarmi dalla sedia. L’orologio scandisce nel silenzio sempre lo stesso morse: vai, vai, vai. Due bacetti sulle guance ai dormienti, e la porta si chiude dietro me con il rumore rotondo delle buone porte di legno, niente a che vedere con le ultratecnologiche supercorazzate.

Mi duole il dito quando premo il bottone dell’ascensore. La città è schiacciata dalle nuvole. File interminabili. Lentamente mi sveglio nella guida, tra una frenata a 0 ed il graffiare lento della chitarra di Robert Cray; blues compagno, nascosto nel vano cassetta fino allo spegnimento del motore, fino alla timbratrice. Graffi di disamore o di un lieve ridere della sfortuna, delle mattine grigie, della routine.

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