domenica 29 giugno 2008

Me & Ventilator MGee

Troppo caldo. E non che ci sia la famosa afa, no. E' per me un normale calore estivo, di quelli che normalmente affronto camminando sul maciapiede non in ombra. Ma siamo ormai abituati all'aria condizionata, ed io ho perso l'abitudine al sole, o del come il corpo può abituarsi alle normali temperature estive anche se non sta in riva al mare o sotto i pini di Villa Celimontana. Leggevo un Kapuscinsky trovato assurdamente in un supermercato e che, come tutti i suoi libri sull'Africa, è permeato di quel caldo intollerabile, alla maggior parte di noi sconosciuto, che spinge le persone a stare immobili gran parte del giorno, nascoste nell'ombra; che insegna loro cos'è l'attesa e l'immobilità più primordiali, cose che la maggior parte di noi abbiamo sommerso con riempitivi a volte buoni a volte cattivi. Ed eccetto nel tempo del lavoro, in cui sono ibernata, sento nelle ore passate a leggere sdraiata, o seduta in cucina con due Tassoni gelate, o alle 4 di notte mentre lotto per non soffocare e non dover prendere un altra pasticca di cortisone (e dunque aspettare altri quindici giorni prima di andare a donare il sangue), o mentre penso tra me e me affacciata alla finestra - mentre il giorno esce dai resti della notte - se odiare gli strilli delle rondini o amarli per quando sarà freddo e non ci saranno a svolazzare in cortile, sento che nemmeno io so aspettare, fermarmi più, che mi perdo degli attimi di immobilità necessari a non pensare, o non agire, comunque non - e lasciare che il tempo mi percorra e attraversi.

lunedì 16 giugno 2008

Ho visto l'asfalto luccicare



Parco di Monte Mario. Villa Mazzanti, riflesso di un magnolio fiorito


Se io potessi andare a lavorare ogni giorno da Via Gomenizza a Via Trionfale, salendo lentamente il dislivello fino a sotto l'Osservatorio Astronomico, non avrei bisogno nemmeno di pensare alla dieta, all'età, al traffico. Lentamente, con un bel ramo alla mano, cadenzando il passo, alternando tornanti e scalette, salutando i guardiaparco nelle loro Pande bianche, andrei su. Il verde è più verde allora, e ci sarebbe pure un bourdonnement d'insetti a sovrastare, per un po', il rumore del traffico. Sotto, il bianco dell'Olimpico. Sopra, le cupole dell'Osservatorio. In mezzo, una piana d'erba morbida, panchine dove leggere. In fondo, il Cuppolone. A destra, rumore di cucchiaini: colazione al Cavalieri Hilton, sulla terrazza. E allo Zodiaco non ci sarebbe nessuno. Vedrei salire l'umidità che ha coperto la città come un foulard notturno. I colori di Prati, come tanti zuccherini rifiniti dal primo sole, fuoriuscirebbero dalle facciate, vicino al fiume più verde che mai.

Nella mattina di domenica invece, con il sole che brontola da dietro le grosse pecorelle che da giorni transumano sul cielo romano, vado su leggendo i cartelli e scoprendo piante che non avevo visto mai in città. Sulla curva panoramica sotto Villa Mellini turisti sbalorditi si riposano al fresco. La terrazza dello Zodiaco e piena di gente e come al solito ogni cosa è lenta. Arrivati fin lassù, tutti trattengono un po' il respiro: alcuni perché guardano la città, che in quel momento costruisce loro un ricordo per sempre. Gli innamorati, perché lasciano il lucchettone dell'amore eterno sulla ringhiera, vicino alle rose: ora fammi sognare. E io, perché penso che mo' devo scendere.

Sono le due adesso. Una coppia anziana attraversa diagonalmente via Gomenizza. Lei lo tiene per il braccio, quel modo di passeggiare dei nostri genitori, e camminano concentrati, a piccolissimi passi, come su un filo tirato. Quando arrivano al marciapiede, sempre leggerissimi, mi passa davanti un furgoncino. Un riflesso del sole sui finestrini schiaccia istantanea, rabbiosamente l'asfalto. Silenzio della domenica. Guido piano, i finestrini aperti a respirare i lungoteveri, fino a casa.