sabato 11 settembre 2010

Addio del passato [Ehm. Meno drammatico.]



Arco di Tito

Non amo più questa città. Mi sono resa conto qualche mese fa ma, come si fa con gli amori che scricchiolano, di cui il nostro istinto sa già la fine, non me ne sono voluta accorgere. Ora che in un sabato pomeriggio di sole non sento più la voglia di andare in centro, di scoprire quartieri nuovi e di fotografarli (ah Torraccia, ah Portonaccio), di salire al Gianicolo per annoiarmi con gli occhi pieni di questa luce pre-autunnale, è il momento di lasciare.

Lettore, non pensare che il resto del blog sia dunque noia. No. Ho scritto, e bene, di amore per persone che ho molto amato, e di amore per questa città; ho scritto di social network, di blog, di cose che mi facevano vibrare d'interesse. Ma ora no. Tutte queste cose sono sbiadite: per prima la città, sporca, rumorosa e incivile, e poi tante altre cose ora senza quasi più senso, infuffate, che nulla mi danno.

Potrebbe essere un periodo così, o invece [era] un calesse (cit.). Io ho sempre fame di vita, curiosità di vita, amore per la vita. Ma non ho tempo da perdere nello esplorare le vite degli altri. Io sono adesso, nulla è rimandabile: la dimensione del presente è insieme finita e infinita, e sono tornata alla strada, al giornale, solitaria nei caffè, bramosa di silenzio.

E mi duole il silenzio di questo blog, la morte dei blog come luogo di meditazione, dove prima di scrivere ci pensavi; non riesco a mantenere una chat infinita tutti i giorni. Per ora, il blog finisce qui.

martedì 15 giugno 2010

Taglia - Copia



Civitavecchia, il porto


Ti guardo, seduto sul divano; una voce di silenzio, di soli movimenti. Cerchi, onde di fumo che con le labbra moduli come parole, che con le labbra carezzi e soffi. Pieghe nell'aria, le tue mani ferme abbandonate tra i cuscini; entità strane, roba che non ti appartiene, che sembra dire l'abbandono stesso.

Ma non appartengono a me. Ai miei occhi rimane il pensiero di un disegno a sanguigna, le tue mani distanti dalle mie. E la pelle loro, che si secca come quelle foto di deserti di sale, di letti di fiume abbandonati nel brutale tropico del Cancro.

Ah le carezze lente, i riflessi della notte sulle curve. Tutto ciò, le chitarre, l'estate... mi copro forte la bocca, mi faccio male alle labbra. Incendio, incendio che si spegne in lacrime tenute dentro, lucidanti l'interno delle orbite solo per me; al massimo, va, per la città questa nostra di cui siamo stati odori, ombre che le mura ricordano.

- Vuoi qualcosa? Una sigaretta? Perché mi guardi così?
- Dammi la mano sinistra. Ti leggo la mano.

Sul palmo le righe dove io sola ho scritto, montagnine fatte arrendere dai baci. Mi porto sulla guancia la concavità, i calli, sapore di essere fratelli, e più che questo, più di tutto e la coscienza; e sento nelle tempie tutti gli orologi, so che sarà mattina. So che sarà, l'ultima, mattina.

mercoledì 7 aprile 2010

Agua de luna clara

Quando tu te ne vai, tu chiunque, che sei passato per la mia vita, tangenziale a molte cellule e vicino a molte emozioni - anche troppo vicino, anche lì - all'inizio sento una sottrazione, poi la malinconia, poi nulla.

Ogni cosa va e torna, ogni gesto è circolare.

giovedì 4 febbraio 2010

Comunicazione di servizio_26

Il fornitore della piattaforma dei commenti di questo blog ha deciso di chiudere/migrare ad una piattaforma a pagamento. Me sono salvata tutto il salvabile, e riattiverò i commenti di Blogger, che però non importa commenti da questa piattaforma.

Questo blog dunque, per la maggior parte dei suoi post, rimarrà in un silenzio stellare.
Mi duole come una ferita. I commenti sono il sangue di un blog, quello che lo fa vivere. Senza commenti un blog muore, non adempie alla sua missione: condividere.

A tutti quelli che adesso passeranno ad un silenzio spero breve, un abbraccio.

martedì 2 febbraio 2010

La solitudine del non saper fotografare il tramonto



(Appunto.)

Dalle strade si vede il tramonto. Non è diverso in sé, lo guardo tutti i giorni: sotto la pioggia, o distratta, oppure mentre mangiucchio una barretta al sesamo, là dietro il SUV evitato, qui fuori dal supermercato. Eppure certi giorni d'incendio come oggi devo fare attenzione, concentrata sui gesti quotidiani; gli occhi se ne vanno a fotografare in velocità ogni millisecondo, ogni variazione di colore, ogni riflesso rame, rosa, ambrato di grigio, con i bordi gialli, bordeaux sulle rovine, piano bollente sui vetri degli edifici, striscia di taglio sui pali dell'alta tensione. O le nuvole basse, come rotoli di antracite, con sopra strade rosso cupo senza fine. Poi il tutto precipita in un baratro dietro l'orizzonte della città. Kaputt.

Un momento di sospensione. Le case tengono il respiro dietro persiane e tende. Noi dentro le macchine mordiamo lo spazio intorno, ciechi come pesci abissali.

Poi si cominciano ad accendere le finestre, prima timidamente; poi, siccome la notte arriva a ondate implacabili, vinto il giorno che spira in un ultimo grido di giallo brillante, tengono un ritmo non diverso dal battito di una natura artificiale, estrema. E ora sento il rumore, e scappo schiacciando le buche sotto le ruote. Le luci dei fari strisciano oblique sotto il metallo della tangenziale.

Sbircio le strade laterali in salita, che finiscono dritte nel cielo di un viola disfatto, ancora non nero; e mi prometto, seria come quando ero bambina e non sapevo nulla di appuntamenti mancati né di cieli promettenti: "la prossima volta vai". Guido piano, vado altrove, con il groppo alla gola, la sensazione che era lì che dovevo andare, perché era lì l'angelo, o la palla rossa perduta, non so; ma qualcosa.