giovedì 31 marzo 2005

La pioggia invidia le città di mare

Una delle cose più belle di questa città è senza dubbio i temporali minacciosi che sfogano in tre-quattro minuti una grandinata spietata di gocce grosse. Un po' come quello che si racconta qui. Questo pomeriggio, senza alcuna voglia di tornare a casa, con sul sedile un mucchietto di fogli A3 da tradurre (forse è finita la carta normale? Non ho chiesto), mi sono allontanata nel quartierello dei giornalisti e gli impiegati che bivacca e gode all'ombra della Biblioteca Nazionale, per poi serpeggiare verso la Nomentana. Prima davanti, poi dietro, poi davanti di nuovo il cielo grigio antracite, grigio più grigio, grigio canna di fucile; sui quadrati e rettangoli del Deposito dei Libri (nella mia wishlist personale c'è scritto: "entrare nei depositi della Nazionale") scende verso Ciampino un aereo brillante sotto il sole feroce; poi mentre giro per imboccare la Nomentana vedo i lampi, linee delicate tracce distratte dell'accumulo di calore dell'ultimo giorno del pazzerello marzo. Contro il cielo si stagliano tutti i palazzi, un effetto polarizzatore; l'aria è così pesante, entra ed esce esausta dalle finestre aperte, chiedendo una liberazione. Ma io so che si deve ancora caricare il cielo intero come una grande pila: difatti, sotto le nuvole si accendono non più lampi ma esplosioni. Vado dietro ad uno dei nuovi filobus, un animale goffo e pacioso, che ondeggia senza fretta, senza perdere il contatto con la linea elettrica; i cavi mi portano, mi portano dentro i quartieri che sembrano piccole città del nord o periferie milanesi o torri solitarie, un solo lato esposto al sole, che stanno tutti come in un grande plastico, in attesa di binari e motrici e vagoni. Finalmente - lo sto aspettando - il grigio rimane sospeso, esplode nella bianca vittoria contro il sole, e viene giù la pioggia a risate, esagerata, l'asfalto di colpo un mare; io, dentro lo squalo, mi lascio portare dai Gotan Project, malinconica. E' quasi bello non vedere niente, schivare motorini attoniti e i pochi non romani o non previdenti che corrono sotto le borse o le giacche o semplicemente bagnati fradici.

Mi arrampico e poi scendo giù per strade sconnesse, fino a Largo Labia. Lì il gioco finisce. Giro senza sapere dove vado, in mezzo alle campagne - dove forse, chissà, giocano ancora i bambini - e imbocco cloni di raccordi e tangenziali, scendo Via Bufalotta buttando le ruote nelle pozzanghere, finalmente Piazza Sempione. Piove a sole. Di nuovo, nell'aria pulita, tutti i villini e le ambasciate e le ricche case i cui balconi sono sorretti da statue di schiavi muscolosi. L'ultimo tratto è dritto e lucido come una striscia di gomma. In fondo, i tunnel del Muro Torto. Un guizzo ed esco a Castro Pretorio.

Ah, c'è la pizzeria a taglio aperta, a Via Palestro, ancora. Ci sono anche delle minisfogliatelle né dolci né salate, calde, con dentro un quadratino d'arancio candito che mi guarda sornione dalla crema... E' finita la pioggia, intanto, come sempre.
'Na sfuriata, e vvia...

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