domenica 13 marzo 2005

Quando ti fermi a guardare in macchina

Nella notte, piegata sulla tastiera, ascoltando un tango slavato, scarno, che mi china la testa come fossi un tulipano la cui materia, densità dei giorni vissuti, non vuole ancora sfiorire... Io, sempre in mezzo al frastuono, che persino nel silenzio ho bisogno di guidarmi veloce, attacco una scaramuccia con me stessa come continuamente: finto, sfido, tocco dentro, spietata. Non cessano i pensieri, continuamente esternano voci gesti e persone, ma non posso più ridere per la gioia di ricordarti, né disegnare con le mani i tuoi contorni. Non mi basta.

Un’attesa paziente, lucida, accresce il desiderio. Bisogna resistere all’amore per conoscerlo. Quebrar quando i cuori sono troppo vicini; aspettare alla fine del binario 17 – il più lungo di Termini, oltre il quale ci sono tutte le destinazioni - sempre pronti a prendere un qualunque treno di passaggio per il lentissimo oblio, per la sconfitta ed il posare di quel bruciare che mantiene in vita più, oltre, del semplice circolare del sangue. L’attesa non è che un dominare, un arginare senza spegnere un appetito, in modo che al suo compimento, che è comunque l’obiettivo finale, produca un insostenibilità assoluta della sensazione, da potersi portare - contrariamente a quanto dice il vangelo - dall’altra parte della morte.

- Vai, vai più veloce. Brucia queste frasi, sconnesse.

Ricrearti di parole e non di carne e sangue. Che cos'è alla fine quello che faccio, se non fare e rifare l'intero mondo mio, credere di fissarlo per poi allargarlo nel tempo? Che altro se non voler conservare, per sopperire alla mia assoluta mancanza di memoria per il passato? Non so cosa era ieri finché non l'ho consegnato ad un supporto fisico. Non so cosa ho sentito finché rimane in me, sconclusionato. Non saprò se ti ho amato finché
non
l'avrò
SCRITTO.

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