martedì 1 marzo 2005

Una poesia (sull'amore ed il gioco)

Fortuna maledetta,
che prometti di cavare gli occhi ai miei nuovi amori
- tutti coloro che discreti ora mi stanno addosso -
prendo l’ultimo dolcetto di questo tè con le paste
imbastito come un dernier adieu, e confesso.

Ero sì forte al gioco, e fu per questo
che pensai di essere immune alla passione,
ero libera e facile al capriccio all’incasso:
finché fui di fronte a lui e mi disse
che di questo non era per nulla lusingato.
- Come? Non vuoi che vinca? Non t’importa del lusso?
- Mi annoio, mon trésor, cambiamo lo scenario.
Allontanata presto dal calor delle carte,
mi gettai in un altro calore, poi nel ghiaccio
di mattine sospese, in cui l’uomo è cristallo
all’alito sottile di un corpo più flessuoso.
Meditavo, parbleu. Mi feci un solitario.

I rumori felini delle carte prendevano
l’aria di una ouverture,
e da lì fu al volante che andaron le mie mani,
poi, sulla Corniche…

Non è difficile trovare giocatori incalliti,
schiavi dei polsini immacolati. Ma vincevo, oltretutto.
Non si può, dunque: ricevetti il tuo invito.
Son vestita di sacco, in omaggio ai rovesci
che mi tieni già pronti sotto i pizzi e le trine.

Fortuna maledetta,
lasciami almeno intonso un giocatore squallido,
che non sappia nemmeno contare con le dita,
che nemmeno si accorga del color delle fiches
in quest’ultima mano…
Poi sarò amata. E vinta.

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