Città dalle cento città
Vuelvo al Surcomo se vuelve siempre al amor
vuelvo a vos
con mi deseo, con mi temor
Gotan Project, Vuelvo al Sur
Il mio Sud di Roma sono quelle immaginarie spiagge bianche dell'EUR, che portano verso il vero mare, e dove indugio spesso, più del necessario. Il pomeriggio di questa primavera scoppiata di colpo (siamo agli antipodi esatti delle ottobrate) contiene quella luce carezzosa, rosa pubblicitario, che scivola mielosa su tutti i piani alti delle lunghe, severe case fino ai Navigatori, da dove un po' tutto di dirada e confonde in aziende, edifici istituzionali, campetti con sfondo di quartieri. Poi, dopo il rettifilo della Cristoforo Colombo, una lunga salita porta fino a dove il verbo arrivare prende una sua consistenza marmorea; l'acqua delle fontane è congelata nell'infinito gesto di giocare con l'aria, le stradone larghe con i bar seminascosti negli angoli rifiutano l'estraneo, la luminosità dei travertini riposa fissa e languida sotto gli occhi senza orbita del Colosseo quadrato, dove è scritto per sempre che gli italiani sono un popolo di navigatori, inquieti e visionari.
Ma non oggi, voglio ritardare e far notturno questo incontro. Vago dunque per la Garbatella, accolta dai viali con platani dai rami lunghissimi ancora spogli, contorno le vecchie case che stanno solitarie, come anziane dame molto truccate di fronte al tramonto. Poi, un tuffo di striscio, a costeggiare S.Paolo, l'immenso plastico, la chiesa più solitaria e derelitta che conosco, quella che ha il complesso della ricostruzione, il colore del cemento insieme alla finzione di mosaici che mai rieccheggeranno le voci e le luci del medioevo. Fuggo per la via Ostiense fino al Gazometro. In una stradina di accesso, un forno con l'insegna di neon blu, nella luce confusa che precede la notte, è come uno spostamento spazio-temporale, una immagine di fantascienza. L'enormità del Gazometro tagliata dai muretti limitanti la proprietà privata ha qualcosa di solenne, come quando si guarda lo scheletro rimasto di una cattedrale. Vorrei indugiare, gli occhi aperti al gioco della luce sull'acciaio, ma qualcuno, dietro, mi suona il claxon, diretto alla sua vita.
Giù, giù fino a Marconi, poi giù fino a bermi tutto il Lunapark colorato immerso e ritagliato nel buio (non ci sono lampioni accesi nella passeggiata che costeggia gli impianti, da anni), con la sua ruota panoramica dalle luci ferite e mancanti che gira senza persone, come in un proprio sogno di Las Vegas, ricordando i ragazzi che lì, sospesi nell'universo, si sono tante volte baciati. Addio, addio, un giro dietro il Palazzo delle Esposizioni. E' tardi. Entro nell'onda verde, giù per la discesa. Nello specchietto, sola ad un semaforo, le tre frecce delle corsie brillano sul nero dell'asfalto. In fondo, in agguato, le altre macchine che ritornano. Avanti, a destra, a sinistra. L'ho mai saputo? Via, via, a casa...
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