Invisible wires
Tlac, contro il mio ginocchio piego l’asticella degli occhiali; parte la molla, si raddrizza con un breve vibrare, tlac, la ripiego, tlac, di nuovo. Mentre il rumore dei turisti mattinieri riempie San Giovanni, al cui interno il Borromini mise angioloni minacciosi con ali come spade, tento con gli occhi chiusi di richiamare i fili che ho sparso in questi giorni, e quelli che mi sono arrivati domarli ed ordinarli. Estesi nelle nuvole, aranciati dal sole, nascosti nelle scale, seguiti dalle ruote delle macchine, i fili di energia creati dalla musica nella quale affondo come in un mantra ipnotico, concentrati, han viaggiato come silenzi e parole. Molti fili non miei mi arrivano alle dita. Con gli occhi ancora chiusi alcuni, leggono nei miei palmi, sento le loro correnti immaginare la mia vita: altri rossi di sangue, ingrossati dal pianto, minacciano - poi si sono disfatti. Altri hanno trovato ad accoglierli le mie porte aperte, e si sono portati via i miei "Jonathan Livingston, gabbiano". In ginocchio, con la testa tra le mani, sembro pregare. La luce filtra nella navata mentre visualizzo tutti i miei legami e li tronco netti. I volti, i corpi, i gesti, tutto si allontana. Naturalmente sono stanchissima adesso. Di botto risento i passi delle persone, il click delle macchinette fotografiche; percepisco i contorni con grande nitidezza. Mi alzo ed esco sotto un cielo confuso, rabbiose macchie di vari celesti, le nubi che girano come invasate. Ho bisogno di un caffè molto zuccherato, e di temperatura più mite per gustarlo. I baristi del bar sotto la scuola, veri
kraftwerk serissimi, mentre controllano tutto con gli occhi così mobili da sembrare sfaccettati, mi porgono una tazzina che mi sembra minuscola. Bevuto di un fiato, come fosse una grappa, la mia attenzione si risveglia, si concentra sui profumi. Richiedo un chicco da masticcare, da schiacciare coi denti, che mi riporti al giorno. E cammino sullo stradone, finalmente pulita, soddisfatta…
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