Concerto per strada
Io osservo. La gente passa e passa ininterrotta. Sono come le foglie d’autunno che svolazzano; alcune si fermano un attimo a terra, si abbandonano agli odori forti del bosco. Ecco magliette aderenti e tacchi a spillo, corpi un po’ troppo grassi inguianati di velluti e signore secche, dai capelli tinti di biondo, con al braccio un manichino; ecco tante giacche classiche su camicie celesti e pantaloni dritti, ecco la parafernalia mix dei ragazzi a vita bassa, con il loro trillar di cellulari, ecco gli stranieri che lasciano davanti al gruppo di suonatori gli occhi sommessi e sorpresi dell’alterità che si portano dietro. Malseduta sul bordo di un’aiuola - ah, sgradevole città dove bisogna sempre camminare come in un cerchio infernale – mentre leggo attenta e distratta un libretto, apro uno due canali e tiro su i tasti, entrano nel nastro interno le note della fisarmonica, e quelle ditate del basso come colpi di tamburo. Sotto i tubi-innocenti, le tre scarne figure, la figura del cantante agitato in una compressa fiamma nera, un sorriso troppo grande per il viso. Canta in francese, in ottimo francese, una canzone di Brel. Qualcuno gli ha chiesto, prima, chi è Brel, e mi chiedo quante volte innocenti ignoranti di Brel gliel’hanno chiesto. Serafico-arreso, risponde parole non appassionate – e come si può, trattandosi di Brel? Ma i musicisti di strada sanno essere misurati, danno le piste ai diplomatici - e poi parte come un maglio da coltelli. Oh, dategli un palco, penso. Grande come un mare di propria misura, portatile. Quando il concerto finisce, per autonoma secessione dei musicisti, distaccati dal resto ormai da due canzoni, me ne vado, scivolando giù, i miei passi accordati all’orologio che marca l’avvicinarsi inesorabile del sedile dell’autobus.Poi le strade illuminate gialle, vuote, vestiti abbandonati nella campana del riciclo della notte. Canto…
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