Era una cosa cozza, una tirata brutta
Non bisogna pensare che io ami questa città incondizionatamente senza vederne le sue brutture, fatte non soltanto di periferie e di campi, o di incuria totale nel trattare la memoria, o di un perenne atteggiamento di odio-amore nei riguardi di chi viene ad ammirarla. C'è una faccia brutta della città che parla con un rumore basso, soffocante, che spappola ogni razionalità e ci spinge come animali dentro trappole profumate e colorate: i centri commerciali. Oggi, convinta che forse era finita, che forse avevamo mangiato e bevuto abbastanza e riso in faccia a tutte le notizie di crisi, sono andata a Porta di Roma, all'ufficio postale, con l'idea di fare anche una piccola spesa di cui tenevo la lista in tasca. Il parcheggio inferiore era gremito oltre le mie più orride aspettative. Noi guidatori, la specie più feroce di romani, ci affrontavamo come gladiatori, pronti al colpo di volante che ci avrebbe attribuito l'agognato posto, imprecando contro quelli che si erano messi larghi-larghi, a cavallo di tre posti, sotto una lucina verde che era invece segno della trappola per topi; sbuffavamo per le assurde giravolte dei percorsi che soffocano ogni tentativo di scavalco di corsia alla "l'ho visto prima io". Mi è anche toccato manovrare in posti parcheggio messi negli angoletti più nascosti, fuggendo dai pilastri traditori che lambivano le fiancate dello squalo.Agli antipodi delle luccicanti facciate, finalmente, trovo un parcheggio. Posso entrare e sbrigarmi velocemente, credo. Che ingenua. Già file strabocchevoli riempiono le scale mobili, bambini trascinati con ai piedi i pattini nuovi, coppie giovincelle al primo incontro che vanno a prendere il caffé dio-sa-dove, gruppetti che sbirciano le vetrine, soppesano profumi, fanno la fila fuori dalla minuscola tintoria (fanno lavare, lì per lì, il giaccone, mentre mangiano una pizzetta e si leggono il giornale?), si siedono nelle fioriere-panchine-punti di raccolta. C'è un mare di gente nell'ufficio postale, con i suoi addetti ieratici che riescono non so come ad ignorare la calca che faticosamente si controlla, nello spazio angusto, dallo scoppiare in un attacco collettivo di territorialità. Prendo un caffé banale mentre penso a coloro che in questi posti soffrono attacchi di panico, e ai commessi del supermercato che immagino allenati come poliziotti di reparti speciali, in stanze anecoiche in cui vengono bombardati da un misto di risate, strilli e di frasi tipo come "sei sicura che non abbiamo finito lo shampoo?", "di questo ne ho preso tre, era in offerta", "lascia le caramelle!.. va bene, quelle sì", finché il mondo esterno diventa loro totalmente indifferente, come quando sfogli le pagine di un libro che non ti piacerà mai: e davanti alla mia spesa normale, piccola, mi chiedono "fino a dove, signora"? come fanno con quelli che riempiono tre volte il nastro trasportatore e il cui conto si arrotola come un ricciolo di gesso.
Torno lentamente sul Raccordo semivuoto, in cui si sente davvero quando qualcosa succede alla città. E penso a questi posti che sono per me il male, qualcosa che mi strappa le budella e mi fa aborrire il genere umano in quel momento; li fuggo perché non sono disumana, ma generosa, e lì nulla viene dato, ma sottratto con un sorriso da Joker, per poi buttare via i gusci vuoti...
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