martedì 3 ottobre 2006

Contabilità per domani

Notte. Perpendicolari a me, distratta al semaforo, passano due autobus vuoti a tutta velocità. Forse è il vino africano, forse il mio amore per le lunghe esposizioni fotografiche: vedo due lunghe strisce rossoarancioni in cui il tempo rallenta, come nei miei dischi di Satie sul piatto da riparare, e diventa insieme paura dello sconosciuto e accettazione del nuovo. Un miagolio basso di secondi in più che mi sono regalati perché su di loro imbastisca una metafora: il tempo sospeso, che supera sghignazzando la mia soglia di attenzione, ma non può scappare. Si raggela ed assorbe piccoli gesti e sorrisi, tatto di bruciato nei polpastrelli, gli stessi colori dell'autobus in altre conformazioni spaziali, e finalmente l'odore notturno, carnale, di arcate vegetali invisibili di giorno. Tutto ciò fissa un ricordo e lo delimita: ero lì, sentivo quello. E' nutrimento, è felicità, va nel conto.

La geometria del dejà-vu - qualcosa che un domani, non so dove ne come, mi sembrerà di aver vissuto, e ne sentirò la stessa emozione, la stessa variazione temporale - si va completando mentre scendo viale Emanuele Filiberto tra i monotoni puntini dei lampioni, nella corrente calda delle altre macchine. Ci sarà, oltre, un tempo irrispettoso della regolarità degli orologi, in cui prevarrà il disagio, o il dolore: perché tutto torna nella mia vita, la ruota ha infiniti diametri, i loro punti estremi sono bilanciati da queste piccole contabilità. Allora, mi dico - mentre apro il finestrino e ingoio lunghe sorsate di venticello, per ritornare a una razionalità che è soltanto pace con il mio Super-io - non ricorderò nulla. Eppure, lo so adesso: ho vissuto, ed era tempo mio.

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