venerdì 12 maggio 2006

Microscopic sections of the brain

Esco dal letto, o direi costringo al mio doppelgänger a tirami fuori, a spingermi e spostarmi sul bordo come a una bambina assonnata e difficile, e continuo le azioni rituali, quotidiane, senza esserci, senza essere io. Santo cielo, penso, sono a pezzi. Non c'è disperazione, non un filo di sentimento; ma non riesco a tenere unite le varie sfaccettature, si creano delle interferenze d'istinti e percezioni, sensibilità diverse: è come tenere sotto gli occhi un asilo di bambini. La maestra sonnecchia. I piccoletti si disperdono. Dove vanno?. Diverse me incomplete eseguono malamente, scoordinate, il lavaggio dei denti o lo spazzolamento dei capelli; una mano che non è del tutto mia, una mano come quella che sta in un racconto di Cortázar, mi inforca gli occhiali un po’ storti, mi aggiusta la maglietta sui fianchi, impugna la fetta biscottata.

Le spalle pesano. Quella parte di me addetta alla semplice sopravvivenza delle azioni ripetute preme sui lati delle ginocchia, pesa sui piedi e stringe i polsi, per ricordarmi che ho una massa ed un volume, un energia potenziale che rispetta le leggi della relatività. La tangenziale oggi, tutto il fuori, sembra una foto lavorata con il HDR. Le macchine mi sfiorano con le fiancate, hanno le finestre troppo aperte, si avvicinano troppo ai miei fari; le moto mi assordano. Le bottigliette dell’acqua nei loro spazietti plastici vibrano con suoni identici alla base di una canzone dei Telepopmusik. Abbozzo un sorriso che è una domanda rivolta a questo ritmo staccato dal tutto, gemello al mio sentirmi spezzettata.

- Buongiorno, cara. Carissima. - Andrea mi gira intorno come fa la cappa nella veronica. Le mie mani sono appoggiate al tavolo nell'open space, mentre le parole si accalcano davanti alle labbra serrate e premono. Non è urlare, quello che voglio. Ma parlare, dire come mi sento. E non so.
- Andiamo, trésor. Ho bisogno di due caffé.

Le scale verso la macchinetta sono alte, nere, interminabili come angolati nastri di Moebius. Instabilità, penso, mia feroce sorella.

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