giovedì 4 maggio 2006

Perché io sono soltanto caso, passaggio, strada

Percorrere spesso le stesse strade è come avere una specie di intimità con i luoghi inanimati: nel breve tempo della tangenziale sono in ascolto del parlare delle finestre, che celano o mostrano parti infinitesimali delle vite abitanti dietro ai vetri. O vedo le tracce di passaggi notturni che restano ai margini del asfalto: visioni fugaci di stracci, una catenina, il lucchetto forse di una valigia. E guardo il cielo come a uno specchio, alle persone come a libri, alle strade come a compagne di viaggio. Oggi le nuvole sono confuse, le macchine leggermente aggressive. Sono troppo impegnata a gestire le mosse degli schizzanti motorini ma capto un silenzio anomalo dall'autoradio, un silenzio come quelli dei sogni, e voglio uscire mi dico nel profondo inconscio, esci mi dico nello strato più primordiale del mio intendimento. Un secondo di terrore e parte la musica, prima appiccicosa, una melma che mi avvolge sopra l’asfalto, Whenever I'm down/I call on you my friend, poi uno, due, tre, quattro, l’attacco di tutti gli strumenti insieme, come una porta che si apre di botto alla luce e fuga gli incubi: i treni s’incrociano furiosi come lombrichi davanti e dietro ai semafori di Termini, due cornacchie strillano e litigano in volo sopra i lampioni del primo curvone, il sole esce dalle sue coperte grigie ed esplode, le macchine accelerano e anch’io accelero, abbasso i finestrini, aumento il volume, mi butto dentro alla galleria Pittaluga come in un tuffo nel mare di notte; perché sono sveglia, posso decidere, niente corsia di destra stamattina, tenere i SUV dietro come cani rabbiosi, cercare quella Mercedes dove ci sarà un uomo che potrei baciare, cantare a squarciagola fino al raccordo.

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