lunedì 24 aprile 2006

Phalaris paradoxa

Ci sono zone della città nelle quali basta fare due giri d'isolato per disorientarsi, per perdersi. Gli onnipresenti cartelli Auditorium stonano contro le grate ad ogni finestra, le strade polverose e piene di buche, i marciapiedi inesistenti, lampioni storti e incroci senza semaforo dove le macchine si ritorcono le une contro le altre: tra la Collatina e la Casilina c'è un'altra città, case sparse e campetti verdi smeraldo, un'immensa periferia incistata dove a volte vorrei vivere per avere desiderio dell'accogliente centro abitato e poi, arrivata lì, poter aver nostalgia del territorio selvaggio dove avrei imparato le leggi della strada, il rispetto per l'oscurità, il tempo grande come il cielo d'estate, l'amore che è dolore e denti che digrignano nell'irrequieto sonno dell'adolescenza. Percorro strade che si gettano a cascata dentro abitati disordinati come dovettero essere i primi assembramenti umani. Palazzoni curvi, dritti come righe tirate, ad occhiello: e nei balconi le donne stendono i panni, ragazzoni con i soli calzoncini blu fumano la prima sigaretta del mattino, coppie attempate si scambiano due parole senza odio guardando il cielo lontano, immaginando il tempo di domani. Alla fine dello stradone si apre, come le barbe di una piuma bagnata, il bianco abbagliante della chiesa di Meier. E se mai un programma religioso fu meglio applicato (e mi vengono in mente le ascesi del gotico, o le manifestazioni barocche della gloria), se si voleva rappresentare la luce in mezzo al disordine, alle costrizioni architettoniche dell'abitare moderno e senza cuore, la speranza in mezzo alla tempesta etc etc, non si poté fare meglio. Raccolto come una nave apparentemente ancorata, gonfia di luce, con i tiranti nascosti che sembrano le cime, l'edificio mi viene addosso, mi mangia come un Leviatano, e per mezz'ora io ed altri tre solitari fotografi soggiogati scattiamo dentro e fuori dagli occhi, giriamo, ci avviciniamo ed allontaniamo col naso verso le immense pareti dalla curvatura ardita e magnifica come la cupola del Brunelleschi, frutto ambedue di una sfida tecnica, ma anche di un intuizione d'artista.

- Posso prendere qualche ramo di olivo? - chiedo al giardiniere, segnalando un mucchietto di rami posti al bordo del giardinetto perfettamente tagliato.

Lui annuisce e sorride, un omone grande nella tuta blu. Ne prendo un ramo fin troppo grosso e lo porto fino alla macchina mentre escono le prime mamme con i bambini in carrozzina, all'ombra dei palazzi silenziosi. Un gesto complusivo, perché vorrei portarmi l'armonia delle linee, la pulizia dei profili. Fuggo su per la Casilina incrociando i martoriati treni della Roma-Pantano, lasciandomi dietro i lucchetti dorati - orfani dalle catene dei motorini fino al parcheggio serale - attaccati alle grate della fermata dell'Alessandrino. Solo a Torpignattara sento di rientrare sotto le sette gonne. Solo a TorPignattara ricomincio a sternutire, l'allergia mi riprende: nuvole di polline di graminacee esplodono contro le facciate, attraversano sotto la tangenziale, galleggiano bianchissime disegnando curve impossibili nella mia stanza.

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