martedì 12 aprile 2005

All’inferno Gadda e la mistica della sfiga

La cognizione del dolore nulla è. Il dolore è sterile, muto; stacca le vene dai fasci muscolari dove sono appoggiate, tende i tendini di tutto il muscolo cuore, rende cianotico il respiro della vitalità intera. E io qui me lo sento, a testa china, conquistarmi dal basso, dai piedi le cui dita si ritorcono come in un gesto antico di ricerca del ramo su cui poggiare, una materia che rassicuri, tangibile. Risale la schiena: è un contatto non voluto, di unghie antiche e uguali negli evi e nel futuro. Ne ho coscienza quando arriva al cuore e con un solo balzo raggiunge i miei occhi; subdolo, perché gli occhi sono le mie finestre sempre aperte alla vita, che il dolore copre con una nebbia feroce, con tende gelatinose, brucianti, che hanno il profumo insostenibile di tutte le lacrime che ho pianto. Mi ribello, mi ribello, ho la nausea; perché so, ho la cognizione, la coscienza fisica del dolore psichico. E non c’è spazio dove rifugiarsi o autoaccogliersi, né voce amica, o specchio, nulla; la mia strada adesso è questo bosco da percorrere senza sapere quando né se uscirò. Mi ci devo abbandonare. Ribelle impreco contro i sacrificati che considerano il dolore una espiazione. No, è l’inferno, la cecità; annullamento, ignoranza, attesa insostenibile. So, ripeto, sì, che mi devo abbandonare. Mi libro, apro le braccia, plano lentamente dentro il dolore che mi accoglie. Affogo,
mi sciolgo - dormo

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