domenica 10 aprile 2005

Milano, 19 agosto 1983

Il piacere di suonare, in una immagine di Damiano

E la notte scese, come scendono in questa città tutte le notti di questa estate: piano piano, e odorava di magnolia e di cortile grigio e ocra. Vedevo accendersi le luci dentro le finestre; nei pianterreni la gente rimaneva ferma dentro la nebulosa formata dalla slavata luce delle televisioni. Fuori c’erano già le zanzare, gli ultimi canti delle rondini, la promessa dell’aria che si andava rinnovando sottile, lentamente, fino all’arrivo dell’alba e della rugiada. In questo scenario inconsistente, come mediato da un velo, cominciò a sentirsi un pianoforte; prima sfumato tra gli strilli e le risate isteriche di un film violento, poi luminoso, trasparente, scintillante come uno Czerny da usare per sgranchire le dita. Dentro la stanza della pensione, in cui noi donne leonesse, dimenticando per un po’ gli odori della savana – perché la città è savana di cemento assolato– finivamo la cena, io, ancora distratta dalla lentezza della bambina che mangiava secondo me troppo piano o anche dal particolare sapore del mio tabacco preferito, non sentivo ancora arrivare le note, gli accordi, le scale. Saltellavano come insetti inquieti, insetti baccanti; ma i miei sensi restavano oziosi, addormentati, finché il suono non fu di colpo definito, ancora strapazzato dal volume dei televisori.

Entrava nella stanza come un bambino che ha fatto una marachella della quale non rideranno i genitori, anche se è divertente; entrava con quel sorriso negli occhi, senza chiedere permesso, e s’istallava trionfante nelle mie orecchie, a poco a poco. Di colpo frustata, mi svegliai ad altre notti ed altre mani ed altri pianoforti, e mi prese una botta di passione; e mi dovetti affacciare alla finestra, fare sshh diverse volte, zittire tutti nella stanza, spostare la macchina del gas per potermi muovere a mio agio davanti al davanzale, per accendermi una sigaretta ed ascoltare con affamata delizia le belle novità. Poco dopo giunse vicino a me la bambina, curiosa di tutto; facemmo dei bravo timidi ed applaudimmo, e dalla finestra di fronte qualcuno venne ad affacciarsi pur rimanendo un po' nella penombra: era un uomo di età indefinita ma comunque abbastanza matura – capelli grigi, e quel peso che gli anni adagiano sui corpi –, che fece una piccola passeggiata fino a sparire nella stanza, si riaffacciò ancora parzialmente, come dubitando che applaudissimo sul serio, credendo i nostri applausi un miraggio, uno scherzo; e finalmente tornò alla sua sedia e seguitò a suonare, e io mi sentivo dentro la gioia e provavo a riconoscere i pezzi e a canticchiarli con la mia voce rovinata da fumatrice, a bassa voce – perché mi è impossibile competere con un pianoforte – e continuammo ad applaudire e lui ad affacciarsi, e alla fine suonò Per Elisa di Beethoven. Il cortile rimase muto. Sentivo un respiro corale che seguiva le note, salire e scendere e scivolare in un applauso più grande, ma discreto, milanesemente torrenziale.

L’uomo suonò ancora qualche altra cosa, dei puntini di sospensione sulle note basse, e poi ci fu totale silenzio, un vuoto di silenzio che riempiva il cortile. La mia compagna di stanza uscì e la bambina s’infilò nel letto. Tirai fuori i miei libri di Storia dell’Arte. Cominciarono ad arrivare i piccoli insetti di tutte le notti, attirati dalla lampadina della mia luce di studio; e una libellula giovane, interamente verde erba e antenne fini, mobili come una bacchetta nella mano di un buon direttore d’orchestra, venne a posarsi sull’articolazione dell’anulare della mia mano destra. Rimase ferma lì ad ascoltare il lieve raschiare della mia stilografica sulla carta mentre scrivevo questa storia, rimase lì e mi guardava con i suoi occhi sorridenti che brillavano come minute palline di ossidiana, e dopo risalì fino all’indice, come per leggere, come se sapesse che stavo scrivendo su di lei, e osservò tutto; poi arrivarono altri insetti e decisi di mettermi a studiare, circondata da balzetti verdi e con la mia libellula bambina sul dito. E la notte rimaneva sospesa sui numeri del calendario, nera e silenziosa come il silenzio del pianoforte, nera e silenziosa come tutti i silenzi, profonda come un Notturno ben suonato.

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