martedì 29 gennaio 2008

Pasar haciendo camino

Torno a casa in quell'ora in cui i marciapiedi del mio quartiere sono vuoti, i negozi chiusi, i semafori leggermente sibilanti. L'asfalto smorza il rumore dei passi, lo assorbe nel nero fintamente molliccio.Direi che manca un po' di vento, qualcosa che mi scompigli i capelli e mi faccia camminare inclinata in avanti, con pensieri che fluiscano senza peso.

Mi vengono incontro due bengalesi con dei fiori da ristorante. Nei secondi in cui c'incrociamo me li offrono e io li rifiuto con la voce un po' flautata di una ragazzina timida, che stesse tornando a casa un po' più tardi di quanto permesso dai genitori; ma uno era di quel rosa acceso delle rose antiche e rimane dentro gli occhi. Un po' mi rincresce, sì. E' soltanto un'altro incidente di percorso, una delle tante non-scelte. Oltrepasso una signora seduta davanti una pizzeria a taglio, il cellulare all'orecchio e l'indice in bocca come un bambino grasso. Gli occhi un po' sono spenti. Qualunque cosa stia raccontando l'interlocutore, lei non c'è. Attua una sua non-scelta.

Forse se non ci fosse tanta luce nel cortile, le alogene ad allontanare il senso del pericolo, potrei avere paura, una vera sensazione; perché a non sentire ci si sta in una linea parallela che non incontra mai nulla e nessuno, fino all'infinito. Due gatte pezzate mi guardano da un vaso, si fanno caldo insieme, girano insieme la testa per vedermi salire le scale. Ma io non voglio aprire il portone. Mi fermo a sentire il silenzio, a odorare questo millisecondo pseudonotturno fatto di materia oscura, senza sperare niente, immobile come miliardi di altri prima di me, come loro convinta di poter fermare il tempo.

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