Disoccupazione precaria
Mi alzo, mi bevo il caffé, vado come tutti i giorni, vado sotto il cielo slavato, quasi mangiato dalle nuvole. Il traffico, le Mercedes nere, i camion gialli, le moto rosse. Girare, tagliare le curve, impaurire le cornacchie, accodare un vento al agitarsi dei papaveri sulla strada del lavoro. Disturbi tattili nelle mani, ricordi di cose toccate nella notte, di coperte sbattute e riattrate. Il cielo ostile, di nuovo. La riga bianca sempre sotto la ruota sinistra per non perdere contatto con il sogno di volare.Poi lo stop. I glicini che sbattono al vento profumi e colori. Un rumore di passi sulla ghiaia, come nelle scene dei film. Scherzi e banalità, il caffé bevuto affacciata alla finestra delle scale di sicurezza, guardando il boschetto di pini che lievita verde e rabbioso. Un senso come di essere d'acqua, sentire le alghe salire e scendere fino alla bocca, nutrirle con due mele sbucciate con un coltello viola. L'asepsia di umanità che si annida nei bagni. Schiaffi di pioggia sulla macchina, gocce obese da junk-food inquinato, raccolto qua e là. Uscire, sfrecciare, buttarsi a capofitto nel celestino della vecchia Pantanella. Volere che sia notte. E che ci sia calor. Per ballare.
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