Quando s'è come voi, non si vive in compagnia
Alle dieci di sera sento le parole planarmi sotto le dita con un volo lento di gabbiani o cornacchie. Io ho sonno, o voglia di un libro ben scritto, o necessità del sapore di una striscia di
matza. Le parole aspettano. Girano senza troppo allontanarsi dalla tastiera, attente ai miei occhi. Alle dieci di sera succede che ci sono diversi luoghi sulla terra dove potrei stare appoggiata ad una macchina ferma, fuori a fumare, il finestrino abbassato (e Mr.
DeVille che da una vecchia cassetta mi canta
Mixed up, shook up girl per me, per me sola) con sopra la luna che mi rimanda come una immagine mentale tutti i miei crateri, i luminosi picchi, le ombre che sfumano nella polvere. Alle dieci di sera non riesco a digerire un resto di parole al telefono, le solite parole che mi ricordano che sono collocata tra i diversi, coloro per cui il sentimento si muove sotto la pelle più potente del sangue e della linfa, e non riesce a piegarsi al comune vivere, ai comuni pensieri, alla vita senza malintesi. Alle dieci di sera vorrei come arrendermi, cucirmi addosso tutto quello che mi duole ma che sono io, tutto quello che mi strappo, l'essere spesso inopportuna, mal collocata nel tempo e nello spazio di altri. E soffia un vento così dolce, adesso, roba da tenersi abbracciati per la vita, con gli occhi pieni di luce e il corpo che vibra all'unisono. No, non adesso... non posso più. Nemmeno uno sguardo a questo uomo giovane, capelli sale e pepe e la giacca a tre bottoni, il viso da statua classica, occhi come domande verso di me. Salgo la rampa del garage senza guardare, senza rispondere, la testa che si arrende sul collo e i capelli ribelli, i pugni in tasca.
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