lunedì 30 gennaio 2006

Una vita da mediano

Dopo i fuochi d’artificio di DeNittis e Boldini, mi aspettavo molto dalla mostra di Zandomeneghi, l’unico-veneto-tra-gli-impressionisti, che mi piacciono per la magistrale capacità di cogliere e fissare il movimento (Degas su tutti), il colore della pelle, la vita delle cose (Renoir), le infinite tonalità della luce (Manet). Ma mentre i due primi pittori proposti rientrano in questi ristretti parametri e li superano anche, Zandomeneghi è un'altra cosa.

La mostra è, come in DeNittis, splendida. Ricca e ben organizzata, con fonti documentarie (lettere, note biografiche, piccole spiegazioni dei periodi artistici esposti in ogni saletta) discrete e ben scelte, che introducono ai quadri e ai disegni, un filmato la cui saletta di proiezione era piena; insomma, se a Roma c’è fame di belle mostre, quelli del Dart ce la mettono tutta e sono abbondantemente ripagati dal giudizio del pubblico. Ed ecco, finalmente ho capito cos'era quel qualcosa che mi stonava, mentre per mesi guardavo i cartelloni della mostra ovunque sparsi , e mi dicevo “manca qualcosa, è diverso dagli altri...”.

Zandò, come dicevano i francesi, dopo gli anni di formazione e la gioventù passata a Firenze insieme ai futuri macchiaioli (Fattori, Signorini, Lega, etc) parte per Parigi e lascia indietro tutto così, di colpo: una mossa d’artista che va verso lo sconosciuto che gli fa paura e insieme lo attira. Subito espone con gli Intransigenti (il primo nome del nucleo degli impressionisti), si mischia alla loro vita, e comincia a capire che lui non è tagliato per l’adulazione, la mediazione, la rinuncia ai principi, insomma tutto ciò che, oltre alle proprie capacità tecniche, porta ai grandi salotti e alle committenze che permettono di vivere agiatamente. Uno spirito fatalista e anche un po’ accidioso gli fa scrivere agli amici lettere in cui la contraddizione tra la propria idea di artista e la realtà della società parigina e dei mercanti, nonché le “bizzarrie” degli altri impressionisti, sono oggetto di dolore e delusione. I quadri riflettono i temi comuni del periodo: paesaggi, personaggi dei caffè e dei teatri, movimento delle strade e delle piazze. Ma non può soltanto dipingere: comincia a lavorare per riviste di moda, fa il figurinista. Questo lavoro, che manterrà sempre nascosto volendo evidenziare sempre la sua natura di pittore, gli da' da vivere ma lo amareggia nella dignità, lo sminuisce a se stesso. Una malinconia che sta in quasi tutti i quadri della maturità, che li permea, che non permette in loro il brillare del bianco, che è la luce. Mancano ovunque i riflessi, manca la luce catturata, e rimane una luminosità soffusa, intimistica, malinconica appunto. E’ su questa nota cui c’è la magiore ricerca, non sempre ottenuta con successo, ma cercata con umiltà e maestria: le sue donne pensose, la levità dei loro gesti, i loro visi rossi senza belletti, tutto parla di questa reclusione artistica obbligata dal dover fare un altro lavoro per vivere, e dalla quale si vuole ottenere un riscatto, una propria via. E alla fine, in una intervista riportata nell’ultima saletta dice, circa: “la mia opera può piacere o no, e questo è il massimo di cui permetto si parli riguardo a me”. La sua vita privata, l’emozione triste ma serena che spesso traspare dai suoi quadri (uno su tutti: un Renoir tardo, dei pesci che sembrano ancora vivi, dipinti nel tempo in cui il pittore aveva un tale tremore alle mani che gli dovevano legare il pennello alle dita, è accostato al quadro di un pesce rinsecchito, poggiato su un piatto bianco. “Ma è il quadro di un pesce o di un piatto?” pensavo io guardando le due cose e sentendo salirmi allo stomaco un grosso magone) mi hanno lasciato non una sensazione soltanto visiva, ma anche morale. Perché un qualunque artista, qui un pittore, anche bravo, anche bravissimo, originale, dai colori sapientemente posati sulla tela, può essere nulla senza l’abbraccio del pubblico.

Andate a vederla prima del 5 marzo, quando finisce. E non sentite i commenti “tecnici” delle guide e degli esperti che si avvicinano e si allontanano dai quadri senza sentire affatto quello che il quadro dice. Immaginate il quadro senza cornice, appoggiato al suolo dello studio, mentre in una mattina polverosa di Parigi aspettate il pittore, che vi deve fare un ritratto e si sta lavando la faccia nel catino, nella sua stanza, e si scusa con voi dell’incuria della casa. Fa molto freddo. Sentite i quadri.

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