lunedì 23 maggio 2005

Ad ognuno le sue madeleines

Dovrei lavorare adesso, senza curarmi della cena. Il canone dice: un'ora al giorno, alcuni di mattina, altri alle 2 nel silenzio, altri appena dopo un bagno caldo, altri nel primo pomeriggio; c'è chi si porta dietro un'agenda, un quaderno e ci scrive dentro IL libro in un giorno, in una notte, in un mese. Beh, porcamiseria, a me non basta tutto ciò. Bisogna cedere alla direzione del pensiero e non c'è ginnastica più difficile, più ottusa, per la mente separata dal corpo dalla realtà. Mi sento così assurda mentre a velocità supersonica metto la freccia destra e curvo e strido e tiro fuori il taccuino per scrivere una frase, una parola con a sinistra il trattino, che la rende protagonista, soprano principale nell'opera degli appunti. Oppure di nascosto mentre finisco il caffé e mi devo sedere un secondo sul tavolino pregando che i movimenti dei camerieri dietro il banco - movimenti di denaro, il tavolino si paga il doppio - cessino appena mi sarò alzata e come se niente fosse, seppellendo il taccuino nella borsa, chiederò alla cassiera quanto devo? Tutto così, un incessante ballo di foglietti, che poi mi tocca riordinare mentre la domenica pomeriggio sfuma in una nostalgia che sa di vacanza e di estate finita. Perchè in fondo non so scrivere se non a pezzi piccoli sbocconcellati, perché appena mi allargo trovo subito un osso in forma di appuntamento o uno squillo di telefono o l'alzarsi di volume di una televisione, e devo alzarmi dal tavolino e spegnere il forno e chiudere le imposte e farmi un caffé. E penso a tutti gli scrittori grandi e piccoli che portano avanti la loro vita creativa chinati sulla deliziosa piscina bianca del nulla, al loro eterno raccogliere e riseminare mentre camminano il loro tempo definito soli, pieni/vuoti e fieri. Ognuno con i suoi libri dentro di sé.


Le madeleines proustiane

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