Io dico a me stessa la buonaventura
Una cosa mi disturba di Roma: alcune periferie. Quando devo per forza andare nelle strade di Boccea o dell'Aurelio estremo, mi sento come un personaggio letterario che entrasse di mattina presto, con sopra dei nuvoloni minacciosi, in un bosco appena ripassato al napalm. Dopo aver scivolato attenta e tesa sulle chicane dei lavori del raccordo - mentre con le code degli occhi vedevo alternativamente risalire l'indicatore della velocità e l'aprirsi di squarci nei campi, di burroni dietro i new jersey, statue di lavoratori con torsi non belvederiani arrostiti dal sole, e le Cat che girano come animali da incubo - sono finita su stradine sghembe, senza vie di uscita né possibilità di tornare indietro se non rifacendo uno o due chilometri e ricevendo claxonate su claxonate, nello stile del tipico sistema di viabilità capitolino, che molti risolvono con brutale inversione a U o altre manovre non meno spettacolari. Ho visto palazzoni orrendi nascosti dietro le sterpaglie e le robinie, come ragazze-di-mestiere un po' troppo attempate, pronte al ritiro. Persa, ho rifatto strade e incroci pieni di buche, dissestati, mugugnando in tre lingue; sono ritornata finalmente su Viale Boccea dove un sole ancora in prova di romanità tentava di rendere belle facciate e palazzi cementati, squadrati, senza personalità. Via, via. A Piazza dei Giureconsulti una bandiera della Roma campeggia improvvida sul terrazzo di un attico difeso dai rampicanti: la fede è fede. Via, via. All'incrocio con Via Baldo degli Ubaldi due lavavetri, lei con i capelli ossigenati, si baciano e ridono, le macchine passano, e mentre li guardo e memorizzo vado a infilarmi in una corsia preferenziale che scende caracollando, di nuovo Aurelia, fino alle mura Vaticane.Ah, sono a cavallo, entrando in Roma nel pomeriggio in mezzo a li carretti e li mendicanti; una zingara sola, travestita per non essere scoperta, il pugnale nascosto nella cinta. Rallento per guardare il colore dorato dei mattoni, per sentire il silenzio che si cela dietro, appannaggio dei papi. Monaci e suore vanno e vengono come un incessante scorrrere di rosari. Tendaggi rossi fluttuano dalle logge lontane di Castel Sant'Angelo. Sotto, come un piccolo gregge, il Borgo dalle case stratificate, dalle quali si alzano rivoli di fumo, mentre vengono su di colpo tutti gli odori sventagliati dai platani dei lungoteveri. Nulla è diverso sotto l'asfalto: il colle scende sempre verso il fiume, come sempre. Tanti turisti, sempre, pronti ad essere immortalati in una oggi silenziosa San Pietro, scendono dai musei, ciondolano dietro al colonnato, guardoni degli svizzeri in divisa blu, discreti vigili di Porta Sant'Anna. Via, via. La mia velocità è una carezza clandestina che mi viene ridata. tutte le volte che torno a casa...
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