mercoledì 11 maggio 2005

Troppe macchine nella piazzola

Sembra ricavata da un basso, Bibli: si sviluppa in scaffali e tavolacci ricoperti di libri e si snoda poi in svolte escheriane - che mi mettono alla prova, io sempre pronta a perdermi - verso altri luoghi dal gusto più prosaico e di maggiore silenziosità. La saletta, un horror vacui di sedie nere da regista ognuna con il suo programmino, ospita insieme uno strumento, una sedia vuota e l'attesa. Giriamo, ci salutiamo, fluide presentazioni. Guardo il pianoforte. Di solito quelli da concerto sono pantere antiche, animali pericolosi che bisogna stregare con le sole mani. Questo è quasi tascabile, un felino metallico con tendini ramati e pelle pezzata d'acciaio; il lucido nero è soltanto una metafora della sua notturnità.

Guardo e guardo, perché null'altro so fare mentre ascolto.... Dove siamo quando sentiamo un pianoforte suonare, con il fiato compresso, che vorremmo interrompere o sospendere, finché tutte le note ci sono entrate dentro? Guardo i miei compagni occasionali, momentanei. E vorrei congelare questi gesti, questi occhi. Ma sicuramente Ray, seduto sulla sedia vuota - così vorrei - gli occhi chiusi, libero là nello spazio dov'è, vede e toglie il superfluo di questo momento, come quando scriveva.

C'è del Botticelli e del Caravaggio nel viso della pianista, in quell'intensità degli occhi sul pentagramma: dapprima le note sfidano, disprezzano, offrono brusche caffé e tovagliolo e chiedono continuamente il conto. Lei si piega, la pelle madreperlata sotto la luce cruda, cerca, lancia i capelli rossi, ascolta. Colpi di spada, come nel Don Giovanni; accordi straziati: non cede. Le note lanciano segnali che le mani della pianista lasciano sciogliersi in aria come profumi istantanei. Poi due note martellate ai lati della tastiera, come farebbero le mani di un bambino curioso: una bassa, una acuta, gemme che si sviluppano in rami e foglie e fiori. Ecco, mi dico, adesso lo circuisce, lo conosce finalmente. E poi, quando prova di volo si estende bianca e nera sul leggio, è ormai sicuro, è lei a dominare; a piegare le note, a portarle come si porta un bambino che impara a camminare. E quando il pezzo finisce, lei arriccia il naso: ha vinto. Un breve valzer, ed il felino dorme.

Mentre la pianista risale dai sotterranei dove si è cambiata, si ferma a leggere il titolo di un libro che l'ha colpita. Sembra una donna elegante che va a fare colazione in un baretto di Prati, non più trasfigurata. Un uomo legge un libro dalle copertine bianche, avvicinandosi molto alle pagine, alzandolo in aria come fosse un Vangelo; il collo piegato e i capelli sale e pepe contrastano come in una foto ritoccata sotto una luce diretta che sta sopra il tavolino. Gli occhiali, negati, si altalenano appesi al mignolo. Parliamo prendendo tempo per tutti: di cultura blog, di musica, di tempo, di città; ci ascoltiamo.

Le note si combinano e scombinano per le strade oggi buie, seicentesche, di Trastevere. Do, re, mi, fa, sol, la, si. E io, sentendo addosso, tiranno, l'avvicinarsi del momento in cui le lancette si uniscono e lanciano verso il mondo il nuovo giorno, me ne vado costeggiando le luci di un cinema che tingono di vari colori le macchine parcheggiate. Avanti, avanti, i semafori sono verdi! Un'accelerata ed il giallo resta dietro tre volte su via Marmorata, un decumano ferito dalle corsie preferenziali; via fino al garage, puzzolente di benzina.

- Gianni... uff.. mangio troppe caramelle (mentre butto gli involti delle gelatine ai frutti di bosco nel cestone dei rifiuti).
- Embè.

Silenzio, ricordo; nostalgia delle note che per adesso restano proprietà della notte.

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