Lavoro scollegata
Mentre guido col naso in su anche in questo pomeriggio, ignorando un po' i claxon degli impazienti, scendo dalla Tiburtina quella cintura bassa dei jeans della città che è Via Palmiro Togliatti, verso l'isola ecologica. Un pezzo di corpo urbano con pelle nuda di campetti a maggese, tatuaggi di quartieri e piercing in successione fatti di autodemolitori; alberate che schizzano via nella prospettiva veloce della macchina, l'acquedotto frontiera tra Prenestino-Centocelle - dove i benzinai sono di più che altrove e si lotta armati di millesimo di euro al litro, e le case basse sembrano fatte con Lego di colori pallidi - e il muro discendente dei palazzoni del Tuscolano avvinti all'ombra del cupolone razionalistico di San Giovanni Bosco. Mi passa sopra un fagiano, scappato da chissà dove.Io lo so: quando arriva novembre il cielo cambia pelle, si disfa a scaglie, nasce e tramonta senza tanti colori e la notte mi cade addosso. E mi sento un po' trasparente, sento i giorni che mi passano attraverso lenti, come una corrente dimenticata. Butto vecchi cellulari e una segreteria telefonica. Nei container c'è di tutto, roba in cui le vite si sono concentrate e disseminate. La segreteria ha contenuto la tua voce.
In me tu sei passato. Abbiamo riso insieme. Presi caffé. Abbassato gli occhi. Discusso in completo silenzio. Odiato l'altro. Sentito un'elettricità a cui avremo voluto cedere. Spesse volte, adesso, sento la trasparenza di questo tuo passaggio, amore che è stato come scritto, non vissuto: rimasto in alcuni oggetti, in testi scribacchiati, e soprattutto nella notte sorella, con i suoi sogni tutti del viso tuo. E mi prende una non-sensazione, uno di quei mostri che mi abitano: voglio far finta, giustificarti con tutte le motivazioni messe insieme come le difese di una roccaforte. Non so che fare con l'averti amato.
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