venerdì 17 marzo 2006

Elogio del secondo movimento

Se il musicista è scrittore di emozioni, l’interprete è colui che per lui recita, l’attore che con le sole mani deve riprodurre le luci e le ombre dei sui quadri interiori. Se l’interprete mette davanti ad uno dei suoi due pianoforti uno sgabello rosso, tutto ciò significa che ci sarà lezione di passione, di afiordipelle. Passate le tempeste rinofaringee, la SantaCecilia quasi piena ha seguito in rispettoso silenzio gli slanci amorosi di Beethoven, e anche Schiff, che ogni tanto eseguiva quel delizioso movimento indietro dei pianisti, che vogliono allontanarsi dallo strumento ma a lui restano legati dall’avorio gemello nelle mani, si è tuffato nell’Appassionata senza elastico e senza paracadute, e ci guardava noi pubblico, mentre ci spiegava prima la passione, nel secondo movimento la dolcezza, e nel terzo la nostalgia e la speranza che formano ogni amore. Nel secondo tempo i pianoforti vengono spostati e il grande Bösendorfer dal suono squillante, bianco/nero, nessuna sfumatura ma le note piene, nutrienti, definitive, ci spiega Alla Tedesca il fiore nascente del romanticismo, mentre in Les Adieux un amore maturo e pieno va e viene nel tempo, rinchiuso nella propria perfezione, e ci rimanda placati alle nostre vite normali, là fuori. Ma mi fermo un momento in platea, tra gli ultimi habitués e un gruppo di pompieri, a guardare quei animali giganteschi, severi e potenti che vengono lentamente ammutoliti con pezze varie e protezioni specifiche.

Il parcheggio si svuota velocissimo e il silenzio ne rioccupa i posti. Affianco un taxi al semaforo. Il tassista, un TomWaits con qualche chilo in meno di nichilismo, si passa una mano davanti alla faccia. Poi guarda me che lo guardo. Fisso. Io guardo il semaforo e sento il rumore sibilante delle slidding doors che si aprono, le varie possibilità da svolgersi nei prossimi secondi. Quante volte ho sentito che compivo una scelta? Lo sguardo rimane e dice tante cose. Ma io guardo l’ombra dell’ombra della notte nel semaforo che diventa verde, e lui si perde per Via Aldrovandi mentre io vado verso la città che dorme oltreTevere. Non ci vedremo mai più. Una AlfaRomeo decapottabile porta il suo guidatore verso Prati Sud, tagliando la strada a tutti a Ponte Matteotti. Che sia Matteo Bordone che torna a casa?

Precipitiamo nel tunnel, verso il Muro Torto, tante macchine, macchine nere. Sono là dentro, in quel nero. In quella macchina nera nella quale un ragazzo fa un gesto annoiato e annuente a una biondina che parla al cellulare, la luce bianca dello schermo sul suo collo come un ombra di metallo. Nei vialoni che scendo mentre torno a casa, guardando le luci che vengono verso me come pesci abissali, lenti e minacciosi. Nelle nuvole fatte di pini neri, guardando scogliere fatte di finestre nere. Nel secondo movimento della notte.

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