giovedì 12 gennaio 2006

Fame da lupi

Uscita verso le dieci, la mano tenendo stretto il collo del cappotto, tremando di freddo sotto lo sguardo tiepido del sole, ho issato bandiera bianca e andato dal dottore. I soliti paesaggi che guardo sempre mentre sono in movimento (operai sui tetti o sui ponteggi, i rapporti umani tra motorinisti, le espressioni delle persone intorno ai cinquanta, and so on) oggi erano mediati dall'estraneità del corpo provato da una notte da 400 colpi di tosse. Ma è bello arrendersi, sapersi dentro alla melmosa lucidità dei propri limiti, ricevere e scacciare pensieri smarriti, sentirsi così fragile da poter accettare qualunque abbraccio; ed in questa accettazione trovare un valore, volersi bene, proteggersi.

Il fonendoscopio è insieme terribile e carezzevole. Le sue ondulazioni, oggi, me lo rendono simile agli strumenti degli Inseparabili. Zitta, lascio che le mie oscurità dispieghino per lui tutto il loro apparato di percussioni e sibili dodecafonici.

- Antibiotici. - storco la bocca all'idea delle pasticcone che non tocco da anni - E cortisone. I bronchi sono contratti. E molto riposo.

Il mio dottore è troppo magro, lo vedo sempre più magro: mi fa un certificato con la sua scrittura da bambino, un po' inclinata, grande e rotonda, che mi piace tanto. Nel suo studio i campioni che gli lasciano i rappresentanti sono accatastati, ignorati. Sul tavolo, come grandi caramelle arancioni, blocchetti di postit marchiati con il nome di un antiemetico. Alle pareti, la laurea e tanti disegni del figlio, che lo ritraggono con il telefono o la tazzina di caffé in mano. E' la sua stanza tutta per sé, un po' supermercato, un po' rappresentazione.

Passa un autobus, e un altro, giù da vialone Emanuele Filiberto; ma voglio camminare, respirare il sole. Il bar all'angolo di Via Sannio ha un guardinetto interno con zona vetrata, e la vicinanza del mercato fa che il suo caffé sia ristretto e amaro quanto basta. Di fronte, due soli operai lavorano nei restauri quasi finiti della Porta Asinaria, la vera Porta antica di San Giovanni, che usciva ai campi, ad orizzonti immensi. Tiro fuori dalla scatolina rossa un diamante grande quanto il Koh-i-noor, che ho comprato in un negozio cinese, e lo appoggio sul tavolino di metallo. Rombi e frecce lilla arrivano sino al taccuino dove scrivo, pulsando insieme al viavai del sole. Mi concentro, chiamo a me tutte le immagini. E non percepisco altro dall'immenso animale che si muove continuamente nella città se non una gran fame, una fame di vita e di felicità.

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