giovedì 5 gennaio 2006

How to disappear completely



Statale Pontina, tramonto, dalla macchina

Ad un certo punto la Pontina diventa dritta come un colpo d’ascia e punta verso Latina senza guardare nulla e nessuno. Né il mare nascosto dietro la pineta, né le montagne viola che vanno verso il sud. Nella ormai confusa pianura della bonifica, tra le fabbriche di medicinali e il bar della Tazza d’Oro, la statale va dritta verso il suo quadrato di formazione, la piazza centrale della città, e mentre passo rotonde e incroci immagino accendersi nel quadro le linee di avvicinamento come in 2001; supero una breve cintura di grattacieli e gipponi, parcheggio vicino al Comune, metto il foglietto – un’oretta basterà.

In mezzo al mercatino della Befana in piazza, i venditori di zucchero filato hanno il pentolone circondato da bottiglie tutte uguali di zucchero colorato in dieci o quindici tonalità diverse. Ci sono bancarelle sudamericane e di oggettistica varia, dai microfoni ai misuratori di pressione. Caramelle e cioccolata a milioni. Giocattoli cinesi in bancarelle enormi, da vecchia fiera, stipate di pistole, spade, camion, una fila di passeggini.

- Questa bambola, quanto costa, cosa fa?
- Questa? Parla, cammina, e sa fare il caffé e il cappuccino!

I marciapiedi di Latina sono di travertino. Sento sotto i piedi il calore che questa pietra sa assorbire dalla luce. E’ il lusso più assoluto, per noi romani adottivi abituati al crudo asfalto di marciapiedi imbrattati e sempre minacciati dai motorini. Ogni tanto una specie di U o un quadrato di granito nero o verde scuro. E in mezzo agli altri tombini, alcuni originali, con la scritta Littoria. Come tracce di un dinosauro.

Mi avvio verso Palazzo M, dove c’è una mostra sulle Città di Fondazione, piena di foto di edifici e insediamenti in zone paludose, impervie, carbonifere, isolate. Al di là del costo storico, questi architetti affrontarono il nulla e crearono, alle volte, edifici armonici. Le grandi foto riproducono le case e le piazze, i paesini che sembrano accampamenti, centri urbani da gioco delle bambole, alle volte strade non ancora asfaltate in mezzo ad infiniti pianori; il tutto sotto un sole impietoso, senza altri essere umani oltre a quelli che si riuniscono intorno alle chiese dei borghi agricoli, o che escono in bicicletta dal campo di calcio di Littoria, che sembra la città di Abyss. Mentre guardo tutto senza voler sentire le stentoree voci dei cinegiornali dell’epoca passate in video, la gentilissima – e bellissima - ragazza custode riceve un sacco di messaggi sul cellulare.

Vado via al tramonto. Mentre il rosa e il viola scivolano nel nero, ti vedo accanto a me, anche se non ci sei. Con gli occhi semichiusi ascolti Resignation, una malinconia con cui affronto la città che si avvicina. Le nuvole basse nel cielo riflettono il giallo delle infinite luci, là lontano.

- Va tutto bene?
- Mmh. Forse.
- E dunque?
- Vorrei avere anch’io un luogo dove voler sempre tornare.
- Ma ce l’hai!
- No. Soltanto tu hai un luogo dove vuoi sempre tornare. E’ qui, è questa macchina.

Taccio. Il semaforo-casello di Viale Oceano Atlantico è verde. I palazzoni intorno al laghetto sono illuminati a righe verticali, come grandi equalizzatori. Un traffico ordinato mi inghiotte. E vado piano, perché hai ragione: non voglio scendere, ma continuare, continuare, continuare...

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