I stare at the concrete
Piazza F. di Lucia, Fidene
Il vento, quando soffia a tempesta e strapazza tutte le nuvole che non sono andate via per le vacanze, ha casa non negli stretti vicoli verso il Tevere o sull’elegante Gianicolo, ma dalle parti del Colle Salario, che guarda sul raccordo e lontano verso il mare. Cresce bulletto nei burroni piene di sterpaglie su cui si affacciano giardinetti delimitati da tubi arrugginiti, si nutre delle sedie spaccate abbandonate vicino ai cassonetti, rotola e rimbalza dalle facciate infinitamente uguali delle villette squadrate che costeggiano a schiera strade senza uscita. Ed è amico senz’altro dei ragazzetti felpa e pantaloni dal cavallo basso+cappellino di maglina aderente e cuffiette, che qui abitano in altissima percentuale e che vengono spintonati adesso nelle discese che vanno verso Fidene... Gli abitanti delle torri vedono oggi un paesaggio impolverato fino alle falde delle montagne: ma in un baretto presidiato dal gruppetto proprietario dei tremetriquadri di territorio davanti, il caffé è così buono – vale sempre la legge che il buon caffé si trovi nei quartieri più duri, da frequentare rigorosamente di giorno, mentre gli abitanti mangiano o dormono una siesta che lì non è voluttuaria, ma imprescindibile alla vita - e me lo gusto fino a quando entrano a tre per volta e mi stringono contro il bancone, sbruffoncelle api che hanno voglia non so di che. Pago ed esco, volutamente anonima, la macchina parcheggiata come gli altri, un po’ storta; sono inclassificabile, le perle vere e le scarpe vecchie, ambigua il necessario per non permettere un impressione troppo lunga nelle retine altrui, mentre fotografo le facciate sdentate dietro le quali pulsano i cavi dell’alta tensione e le antenne paraboliche a decine, un fiume di energie fisiche impercettibile ma che potrebbe stare anche in un blow-up dei pixel della digitale.
Nel cielo si vanno radunando tutte le squadre disponibili di nuvole, in un gioco dove le mete sono la fuga verso il mare o la caduta a picco e lo sfilacciamento sulle montagne. Spintonate dal libeccio implacabile le nuvole mi guardano scendere verso i Prati Fiscali, tra parallelepipedi che sembrano non voler finire, come se i costruttori fossero stati presi da un potente singhiozzo di cemento e mattoni; e passo in mezzo ad una Stonehenge di specchi, dove il sole va a schiacciare in canestro le momentanee aperture tra le nuvole impazzite. Da lì comincio a perdermi, e vado senza mappe, affidandomi all’istinto. Soltanto allora il vento mi schiaffa sul parabrezza palle flosce di grandine e nevischio, e non vedo più niente; mentre dalla cassetta irrompe il riff più devastante di Five foot one, entro in via Conca d’Oro sotto un cielo completamente giallo, con le utlime gocce di pioggia che rendono il Ponte delle Valli come fosse d’acciaio appena laminato, come la mia scia metallica che frusta la tangenziale vuota, veloce, rarefatta, fino a casa.
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