A walk with Santa Lucia
Corridoio
Se entro in un ospedale con nel lettore l’avvio di The reflex dei DuranDuran, se c’è la carezza del sole invernale che rivendica a sé i corridoi, se nell’atrio c’è insieme odore di latte caldo e di giornali, vuol dire che riuscirò a vincere l’indifferenza obbligata dei medici, o che eviterò il dolore che striscia davanti ai visitatori dei reparti di Analgesia, o che ignorerò il rumore interno dei cuscinetti ben oliati della burocrazia ospedaliera. Avanzo nell'atrio come chi entrerebbe in un albergo, con dietro un cagnolino ipotetico che deve essere visitato dall’oculista; non me, non me. Io ho il terrore sacro degli Hôtel-Dieu della capitale, e insieme l’attrazione assoluta che mi producono i luoghi reputati all’inizio della vita ed ai sudari della morte, dove tutto insieme si muove ed è sospeso all’interno di palazzi decorati o che mezzo nascondono strutture e pietre antiche, targhe avvolte in allori che ricordano vite passate, giardini dove si fanno scoperte archeologiche. Negli ospedali ho passato il tempo che fino a oggi mi è stato assegnato, più molte notti sveglia a guardare dalle finestre il camminare dolce delle ore, con un occhio posto alle flebo di altri a me cari, un orecchio pronto a sentire i campanelli, i carrelli, gli ascensori e soprattutto il silenzio, il silenzio nel quale si vive e si muore.
- Mi dia uno di questi cornetti. Sembrano buoni. Li avrà mangiati anche lei, no? – chiede un uomo abbronzato alla barista quasi cinquantenne, che serve e incassa con la stessa aria severa.
- Io? Sono a dieta… La bocca non la dovrei aprire nemmeno per parlare…
Il sole mi consola, mi spinge a seguire i profili che disegna sui muri. Dopo un cappuccino che smorza un po’ il freddo, mi avventuro per un corridoio vuoto, come cercando qualcosa che non so dov’è. Vorrei fotografare le maniglie antiche di ottone, le curve dei finestroni, un ala in ristrutturazione... Vado verso gli ascensori scuri, che vorrebbero avere voce e mani per impaurire le persone e permettere soltanto il movimento alle barelle, sorelle di metallo.
La luce che entra da una serranda si spezza in mille sfere e scivola sulla parete di Oculistica, interrotta soltanto dall’ombra di una pianta che si agita e trasforma i riflessi in paillettes, una decorazione lussuosa alle file di persone che aspettano per la registrazione o rassegnate in attesa dell’effetto dell’atropina. Anch’io aspetto, e poi leggo come gli altri lettere lontane con addosso la montatura terribile degli oculisti, che mi ferisce la pelle e le guance; un controllo al fundus e poi via, via nella luce che entra a fiotti per il nervo ottico dalla pupilla aperta come un pozzo, schiarendo le ombre e spianando i contrasti.
Viaggio come in una nebbia che si striscia liquida sulle cose; intorno a me un muro d’acqua lenta. Vorrei vedere così per molto tempo, abbagliata: le cose e le persone senza angoli, senza profili che tagliano…
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