So far away from me
Mercedes 280 CE, particolare
Cammino di fretta, volendo trascendere i miei passi, nel freddo pungente definito sotto il cartellone luminoso di una banca: 9 gradi. Il quartiere è scialbo, le case senza decorazioni: qualche palmetta, un giglio stilizzato, vasi giganti sopra il portone di un condominio le cui facciate saranno state un tempo dipinte con quel rosso pompeiano astruso in una città famosa per i tramonti. I profili delle cose - segnali stradali e luci dei semafori, lo stivale appuntito e pieno di strategiche fibbie che si lascia guardare in una vetrina spenta, il nome verde di un liceo dalle facciate crema - sono affilati nell'inverno e vibrano nell'estate: così mi hanno insegnato i quadri, ma anche la contemplazione attonita, distaccata, del vivere. Anche dalla Mercedes si sprigiona un messaggio. Per tanti, odor di cuoio e un fumare sarcastico. Per me, come il ricordo di un coltello.
- Sei quasi in ritardo.
- Lo so, ma fa troppo freddo per me.
Mi passa un pacchettino blu con un suo elegante fiocchetto. Il tatto della carta ricorda un piumino. Lo nascondo nella tasca e vado verso il cinema, un palazzone alto dieci metri su cui poggiano tre piani ancora di appartamenti pieni di piante esposte nei balconi inferriati, attraversati dai turbolenti rami, come filo spinato di una camuffata prigione cittadina. Prendo il biglietto per un film sui pinguini e comincio a salire come tante altre volte quelle scale infinite, il mio Cubo personale, fatto di passaggi angusti senza un riferimento, con misteriose porte e visioni di scorci esterni su linee di condotti grigi e silenziosi, cortili sul cui pavimento crescono funghi rettangolari, o sulla strada resa flou dalle immense vetrate rinforzate con un interno, inesauribile movimento di fumo. Il pavimento in gomma schiaccia e annulla ogni mio passo. Corro nei bagni, mi voglio sciacquare con qualcosa di ghiacciato, ma due ragazzi nascosti che si baciano, che stanno per strapparsi finalmente tutto respirandosi l'adrenalina, mi spingono fuori ad un angolo, dove faccio finta di leggere una rubrica, il telefonino in mano, la faccia in fiamme. Aspetto che cessi il vociare dei bambini e che il buio amplifichi i rumori fino al momento di entrare in sala e guardare verso la poltroncina 05 della penultima fila, dove sì - e ti riconosco bene dal riflesso rosso dei tuoi occhiali, che brillano ad ogni cambio d'inquadratura - mi stai aspettando.
- Guarda là, quell'albatros. - il grande uccello ferisce al collo un piccolo di pinguino e lo trascina via.
- Legge di vita... ti ho portato il gelato.
Il pacchettino vola lieve dalle mie mani alle tue. Mi arriva di botto un profumo di popcorn, una bustina gialla e blu che mi passi prima di andare. Continuo a mangiare finché i titoli di coda non sono finiti e il claxon della Mercedes, come una nave che va, non è suonato tre volte. Scendo, costeggio il mosaico di tessere bruno-verdi che ricoprono le pareti esterne del cinema - che mi ricordano, per antitesi, le consunte piastrelline nei tenui rosa e viola della stazione Termini - fino all'uscita. Cammino nascondendomi sotto la sciarpa, con la sensazione come di aver finito di mangiare una bella, deliziosa cena: esaltazione, un lieve sonno. Lontano, vicino, rumore dei treni che vanno; mi abbandono, fino a casa.
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