martedì 26 luglio 2005

Un po' a me

Di solito a Roma non si corre mai. Le strade sono intasate e tutti vanno tranquilli. Si accetta che le cose stiano così. Si diffida, ci si protegge dalle macchine, si aspetta il verde, ci si infila negli spazi liberi, macchine e pedoni con la stessa elasticità. Si va e basta. Mentre il traffico di Calcutta è forse la metafora di una rassegnazione di vivere che un occidentale non potrebbe mai comprendere, questo fluire morbido e disordinato, che sfida ogni spiegazione, dopo qualche tempo si va incollando, insinuandosi in una zona romana della propria carta d’identità; una zona non leggibile, introiettata. Oggi guardavo da Piazza San Silvestro il movimento lento di furgoncini, scorte e biciclette sparse, turisti biondi e commercianti che vanno a prendere il caffé. Guardavo con gli occhi socchiusi i movimenti delle persone, leggendo i gesti anticaldo: allargare le braccia, scuotere la testa, sventolarsi con il giornale, fare cadere la borsa appena arrivati alla fermata dell’autobus. Io e il mio fido ventaglio sfidavamo l’ora solare a picco. La fila s’ingrossava e dell’autobus non si vedeva l’ombra. Il calore avvolgeva come zucchero filato. E a me questo calore quasi solido piace.

Il portiere di casa mia, come sempre, girava nel cortile con le chiavi dinonsocosa attaccate a uno di quei portachiavi a nastro che si portano al collo. Fa girare il nastro in tondo, mentre passeggia scrutando il viavai dei vicini, come un novello Argo.

- Fa troppo caldo. Al sole, al vento, all’ombra. Troppo. - ho detto a mo' di saluto, tanto per parlare del tempo.
- Sì. E adesso nemmeno puoi accendere il ventilatore, quando sali a casa. Anzi, non puoi nemmeno prendere l’ascensore.
- Come sarebbe?
- Quelli che hanno fatto i collegamenti per i citofoni pare abbiano tranciato un cavo elettrico. Dicono che ce n’è per un po’, prima che lo riparino.
- Un po’? – pensavo al frigorifero pieno di yogurt, carne congelata, gelato – Un po’ quanto?
- Mah. Un po’.

Sono salita, sbuffando come una vecchia locomotiva, e poi ridiscesa a prendere il latte. Il portiere stava lì come un totem, il viso impermeabile.
- Allora?
- Credo che finiranno tra un po’.
- Un po’ quanto?
- Circa un’oretta, non so… - e si è allontanato con passi lenti e grassi.

Non è un po' troppo lungo? mi chiedevo mentre tornavo a casa, sentendo il fresco della bottiglia del latte sul braccio. Quanto è un po'? Perché per me sono dieci minuti e per altri un'ora? Quanto è per quello lì, o per quella, o per il barista, o per il giornalaio, quanto è per l'autista che mi ha portato a casa? Quanto è per voi?

Beh, è un po' che ci penso.

<< Home