domenica 24 luglio 2005

Nessun amante come il mare


Cupra Marittima, uno stabilimento

Io invidio coloro che vivono in paesi di montagna: chessoio, Pratola Peligna, Sulmona, Cocullo, roba così. Intorno, come una collana o una corona, le curve protettive, materne, ma severe. Alberi infiniti, oppure il nulla brullo delle pendici battute dal vento. La neve, l’assenza di neve: e sempre il silenzio. Quando passo l’Appennino, sentendo insieme il motore - che fa dure fusa – e il silenzio, ho come un sussulto, sento che sto lasciando qualcosa che mi chiama, e scappo con gli occhi pieni di treni che arrancano potenti nelle salite, o dell’urlo bianco dei viadotti che sono come mani intrecciate tra le valli. Poi esco da una galleria, ormai trepidante, inquieta, volendo finire il viaggio: ecco, là, ancora troppo lontano, il mare, quel blu che è colore unico per ognuno, che ognuno può ammantare di diverse definizioni e metafore che insieme fanno un grosso, rotondo sospiro d’acqua.

Mare, mare, mare, voglio annegare…

Il bagnino è incastrato nella sua torricella di osservazione, sonnecchia; un ragazzone abbronzato - che viene tutti i giorni a far lezione in spiaggia - balla con movenze di un misurato sexy, insieme a pubblico ben più scatenato, pezzi di bachata; il barista del miglior caffè della zona spreme, avvitato sulla macchinetta, durissimi e verdissimi lime per l’happy hour; odore di frittura; il sussurrare delle biciclette sulla ciclabile; bambini di una colonia che strillano insieme entrando in acqua; e su tutto il ritmo veloce delle ruote di un merci sui binari: un treno che sembra un modellino, fatto soltanto di piattaforme sulle quali poggiano furgoncini di tutti i colori e allestimenti richiesti alla casa produttrice…

Entro in mare. Lui sembra, come sempre, voler ignorare, distratto da altro. Prolunga una risata tra le barriere di scogli e la fa arrivare lentamente ai miei piedi. Dimena il ventre, là in fondo, e mi manda un’onda d’oro e diamanti e garza celestina. Mi studia salendo dalle caviglie. Carezzo la superficie dell’acqua con le dita come fosse erba alta, grano maturo… e lo sento vibrare, il suo corpo è rotondo, mi bacia freddo dietro al collo rubandomi gocce di rame dai capelli, per poi stendermele sulle spalle, con un clin d’oeil al sole; mi lascia intravedere piccoli gioielli, pesci minuscoli che stanno vicino al cavo delle boe. E così tutti i giorni. Mai uscire, mai; abbracciata, cullata, sostenuta ed intrisa, e non voglio sentire i piccoli morsetti delle ultime ondine tristi, quando esco, stanca e ritemprata come dall’amore, verso la sabbia calda.

Ma le montagne mi aspettano sempre. Loro sono immutabili, e sanno che tornerò. In preda già alla nostalgia, con negli occhi piccolissime lacrime salate - un ricordo del mare che tutti siamo - affronto di nuovo i loro fianchi, la conquista delle curve difficili, e dall’alto, vittoriosa come un bambino quando compie un’impresa che fino a un attimo prima gli sembrava impossibile, saluto il mare. Lui, infedele, si cartolinapostalizza ad ogni momento di più, fino a quando non siamo di nuovo due perfetti sconosciuti, come tutte le volte. Scendo e faccio che la mia macchina esprima quello che sento: metallo duro e fragile, velocità e paura, gli occhi pieni del paesaggio, che mi passa davanti come tutta una vita.

<< Home