mercoledì 13 luglio 2005

We all scream for ice cream

Nel primo pomeriggio di un giorno dal cielo confuso, pieno di spatolate di nuvole insicure tra il bianco assoluto e il grigio teppista-minacciatore di pioggia, l'incrocio di Viale Manzoni mi rallenta, strapieno com'è di motorini svagati (chi fuma il toscano mentre parla con un amico che porta uno zainetto trendy sul completo blu di lino; altri si aggiustano capelli e caschi, un stacca la scarpa per far respirare il tallone calzinato; un'altro si appoggia alla portiera di una Panda da autoscuola ferma a un semaforo e parla con l'istruttore, mentre l'allievo sfodera un bel sorrisone mentre pensa: "e mo' che famo?"), e scopro che una piccola escavatrice ferma, con sopra una ragazza mora, seria nel suo giubbotto riflettente arancione, blocca come un meteorite l'accesso a via Giolitti dalle parti dei Laziali. Vari tipi incanottierati scavano due trincee parallele. Riesco a divincolarmi dalla trappola macchine-e-motorini e parcheggio a volo, visto che una piccola macchinetta abbandona un posto blu. Gratto l'argento del bigliettino anti-multa e raggiungo la Fassi.

Per chi non la conosce, la Fassi è una gelateria antica che, contrariamente a tutte le altre rinomate dispensatrici cittadine di gelati (faccio eccezione soltanto per Giolitti, che possiede il fascino decadente delle strade intorno ai palazzi del potere, e custodisce i suoi sapori con signorile discrezione ) non sta in un locale di media grandezza, bensì in un vero hangar dove entrerebbe tranquillamente un elicottero. Un tempo c'erano le pale dei ventilatori sul tetto, ed era tutto bianco, senza i quadretti che raffigurano ritagli ingranditi di giornale, c'era il giardinetto con i suoi affreschi buffi (ora zona fumatori) di stile egiziano, qualche tavolino, e il bancone nuovo pieno dei loro gelati, come oggi. Gli occhi mi si riempiono ancora quando vedo guizzare l'acciaio dei contenitori appena usciti dalle montapanna, carichi di quella-cosa-bianca; e non avrei timore di metterci le mani, novella Totò, e mangiarla così, da cannibale. Invece siamo ordinati, come sono ordinati gli eredi del fondatore, che vicino alla cassa tengono sempre il catalogo vivente delle misure delle coppette e delle vaschette-a-portare-via. Quando mi siedo sui suoi tavolini di marmo nero venato di un giallo burroso, non sbiancato da nessuna pasta abrasiva, dimentico tutto quello che mi sta intorno, e sento il puro sapore del gelato, o del caffé con la panna, o delle granite dai colori spaziali. Se ho sete, ci sono dei bicchieri e una fontanella. Panchine e spazio per tutti. Un'oasi. Oggi, come con tanti altri tante altre volte, due amici hanno condiviso l'ombra fresca, i rumori ovattati, i luminosi colori.

Arrivata a casa ho spacchettato una vaschetta da 6 etti circondata da ghiaccio secco. E' una cosa che ho trovato soltanto lì. Con un martello che avrà tanti anni quanto il locale, l'addetta ha frantumato un bel pezzo, guardandosi molto dal toccarlo per troppo tempo (brucia) e lo ha messo sopra e sotto. Io ho corso subito a mettere i pezzi in dei bicchieri e li ho riempiti di acqua. Fuoriesce subito un fumino da laboratorio delle streghe e fate. Il ghiaccio bolle. Mangio una cucchiaiata di malaga; sapore pieno, quasi alcolico, forse le ciliegie candite. E lascio lentamente svanire l'incantesimo, mentre il tramonto si ferma un attimo a guardare...

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