giovedì 1 marzo 2007

Narcisa e Mokadoro



Parco della Cervelletta, stradina

Non ci vuole molto. Quando si percorre quasi tutti i giorni lo stesso territorio - un po' come nei film o nei libri in cui il personaggio principale conosce come le sue tasche una grande zona intorno a lui - e si è viaggiatori dentro, inquieti ed errabondi, si finisce per esplorarlo. Non sono mai uscita davvero dal mio piccolo paese, dove bastava fare un chilometro di strada e già eri lontano, in mezzo ai boschi; o in direzione contraria, verso il mare, a farsi spruzzare il sale negli occhiali. Da qualche parte l'erba, gli alberi, le rane, mille odori mi chiamano, e mi tocca vagare per i parchi, o entrare nei cortili del centro, sempre col naso in su, perché sopra ci sono i limoni e le vespe, o i lavoratori extracomunitari sui ponteggi, a ora di pranzo, che fumano e mi seguono con gli occhi mentre passo di sotto: ma soprattutto c'è il cielo, bordato di code di nuvole, come un lenzuolo fresco sugli occhi.

Oggi ho seguito quella stradaccia che è via di Tor Cervara, stretta e piena di trappole, ponti e curve da circuito - nel senso che hanno il rialzo laterale - e che nasconde rovine romane, casali diroccati, torri medievali. Le cornacchie dell'A24 (sempre sui lampioni) si sono date l'avviso: mentre camminavo - tentando di non affondare nel fanghino nero, calpestando purtroppo perfette piantine mignon - per la stradina che scende dalle case coloniche in rovina, con davanti agli usci limoni carichi di anni e di frutti e profumate mimose, loro si posavano sui loro campetti, sotto la Torre della Cervelletta, come un mucchio di fazzoletti neri. Ho girato intorno al casale dispersa in dieci sfumature di verde, cicuta e canneti, iris e lenticchie d'acqua proprietà delle rane. La strada finisce dietro via Bardanzellu, un'isola di tremendi palazzoni. Non c'è nessuno, è quasi primavera e questo posto ora è mio e del caso; ma il rumore dell'autostrada è come una grande ferita, come quello che devono sentire quei due ragazzi che oggi si affacciavano ad una finestra di quelle disgraziate case nella salita della Tangenziale: una libertà tronca, che non permette di uscire fuori, per tornare dentro più ricchi. Sento che devo tornare, per ora mi conservo in pixel fragili fiori bianchi e vecchi silos. E mentre giro di 180 gradi la prua verso casa, mi arriva l'odore di caffé della Morganti; finito l'intervallo mensa le tostatrici torrefanno, le macine macinano e l'aroma si estende fino al raccordo; oltre è territorio degli Osvego...

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