Vado a letto tardi, mi alzo tardi
Cerca de Fuentesecas, Zamora. Sullo sfondo la chiesa di San Esteban
I camionisti mangiano spesso soli sulla nave traghetto. Riempiono i piatti all'inverosimile e usano del parmigiano e dell'olio come fosse il loro ultimo pasto da vivi. Guardano gli altri come fossero attori di una serie televisiva cui è stato tolto il sonoro. Nei gruppi raccontano ognuno le sue scorciatoie stradali, come fossero ferite e cicatrici da mostrare; in due diventano come le figure delle carte da poker: uno guarda a destra e l'altro in senso contrario. Masticano in silenzio, circondati da un'aura di solitudine solida. Non è possibile rimanere immuni, non a me. Intorno vociano o tacciono ragazzi napoletani, ostentando pesanti catene d'oro bianco che sporgono parzialmente da una maglia rosa o da una canottiera; bracciali pesanti che lascerebbero cicatrici in una rissa, orologi falsi, borsette e occhialoni grandi come posaceneri. Belli, alcuni con delle piccole corti silenziose che seguono ogni loro movimento: belli, abbronzati, tatuati fino all'orlo delle mutande esibite, bianche come schiaffi. Isolati uno per uno li trasformo in romani, romani dell'epoca di Tiberio o dei Borgia, esuberante in loro il sangue spagnolo, nell'orgoglio dei conquistadores; rimangono disegnati nell'aria come figure preistoriche dipinte col sangue.
Ah, mare che mi allontani ora dai giorni di vacanza... si sciolgono nel tuo blu, che tutto accoglie, i visi dei bambini che insieme a me strappano scaglie di marmo da una vecchia trebbia, improvvisato portone di una casa abbandonata, imparando a ripetere un mio gesto che domani sarà il loro ricordo. Va lì, dolcemente, la liquirizia delle strade che percorrono la mia Castiglia e sembrano voler arrivare al limite del mondo, baciate dall'oro dei campi ora mietuti. Vanno lì gli odori dei minuscoli piatti perfetti della cucina basca, delle porzioni personali di gioia del palato gustate al tramonto nei baretti di Saragozza, del pane e pomodoro dei ristoranti dietro la Boqueria. Le curve del Pettine dei Venti, a te cugino. I deserti, il sonno dei treni, la polvere dei chilometri accumulata nelle aree di servizio, l'ombra del movimento di un cavallo terrorizzato e nobile che il toro sfiora e macchia di sangue, il pianto di un bambino cui la pistola di avvio di una corsa infantile ha impaurito.
L'autostrada è piena di vacanzieri che tornano, usciti dalle navi. Traffico convulso. Le ultime curve della Roma-Fiumicino e mi viene la pelle d'oca nell'odorare la città che si avvicina calda e sorridente, come una zia che abbiamo voluto bene da ragazzini. Al semaforo della Colombo, guardo nello specchietto le frecce delle corsie. "Vai, vai", dicono. E sento dentro di me una voce che ride: Andare sempre, ovunque; ma sempre tornare. Un luogo dove tornare, dove doversi abituare di nuovo a vivere d'istinto, senza regole fisse...
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