Trasparenza delle dia
Come io mi incanto davanti alle sanguigne e ai tubi di pittura ad olio, così i fotografi non possono, credo, rimanere indifferenti alle diapositive. I colori ottenuti su tale supporto sono quanto di più vicino alla pittura io conosca, quanto di più vicino alla resa della percezione umana. Ebbene, stese su due tavoli luminosi, oggi ne ho visto un bel po', ognuna con dentro il suo edificio, il suo scorcio di mattoni o di bianco cemento a forma di vela sotto il sole, alla Casa dell'Architettura, collocata come un incastro impossibile all'interno dell'Acquario Romano.Mentre gli impiegati prendono un fugace caffé alla macchinetta o escono fuori smaniosi di captare il sole che sonnecchia in mezzo a veloci nuvole bianche e nere, una diecina di ragazzi e anche me vaghiamo affamati in mezzo ai plastici stupendi (Progetto dell'Ara Pacis di Richard Meier, Centro Congressi Italia di Massimiliano Fuksas, Nuova Stazione Tiburtina di Paolo Desideri) e alle enormi foto tratte dalle dia di Andrea Jemolo. Intorno, l'ellisse perfetta quanto quella del Bernini a Sant'Andrea (ma non quanto quella, contratta, del Borromini a San Carlino alle Quattro Fontane), contiene un loggione orlato di velluto rosso, rostri, quadri e colonne che sembrano tratti dall'Aida, le mura dipinte con quel fresco leggero che sembra fatto di corsa, una scenografia veloce di volute e fiori e statue piatte nei pianerottoli tra i piani. Sotto i piedi, appena varcata la porta, una scritta in mosaico: Salve.
Non direi che il matrimonio tra cotanto kitsch e le molte pulite architetture cittadine degli ultimi 15 anni sia meno che ardito: è bello e brutto insieme, e devo uscire dopo aver guardato tutto, la testa che un po' mi gira, a fotografare gli animali marini fermi per sempre nel loro girotondo a bassorilievo intorno all'edificio. Devo fotografare e tenermi in tasca anche le case gialle e rosa e i colori dei mille magazzini di collane e piume e fermacapelli cinesi.
E devo... sì, devo togliermi da questa Mitsubishi dove sono appoggiata a guardare il cielo. Il guidatore sorride sornione e io faccio la faccia della ragazza innocente, che quasi quasi nemmeno parla italiano. Scatto ancora e vado. Lui parte e suona un claxon basso di saluto come un treno o una nave, sorridendo da sotto occhiali di corno chiaro, mentre mi avvio verso il giallo accecante di Piazza Vittorio.
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