The honky tonk blues
Tangenziale, verso i grandi curvoni, vista da Damiano
La ragazza che cammina davanti a me mentre raggiungo la macchina ha quei capelli morbidi che non hanno mai avuto bisogno di nessun colpo di spazzola, e getta uno sguardo verso un ragazzo dalla faccia larga, i capelli fluenti e una bella bocca. Lui fa finta di non vederla nell'incrociarla. E mentre si allontana altri uomini guardano lei, inevitabilmente, con occhi affilati o in bocca una canzone, con cani al guinzaglio e valigette in mano; ma lei ha guardato soltanto lui e il suo corpo si è chiuso per un po' nella mancanza del corrispondente, il suo corpo che emette piccole curve ad ogni movimento. Passa davanti a tre studenti che guardano lo stesso punto del cielo ognuno piantato indolentemente nel suo metro di marciapiede. Passa davanti alle massaie che guardano cumuli di frutta e verdura - che sembrano "giocattolo" o "gioiello" a una certa loro parte istintuale - mentre pensano a numeri che si sommano e sottraggono in colonne, a ricette, al tempo elastico e al grigiore della mattina che su tutto incombe come un'attesa, una specie di rassegnazione. Un uomo giovane mi attraversa davanti, con in mano il giornale e la bustina bianca dei cornetti, verso una colazione che per migliaia di noi sparsi sulla strada è già lontana. Sopra il semaforo della tangenziale lo stesso aereo di tutte le mattine scende sulla nebbia delle nuvole basse. Piove senza voglia, senza vento. Mi mancano i venditori di giornali che camminano sullo stretto spartitraffico come su una corda tesa a dieci metri di altezza.
Le case che guardano sulla tangenziale sembrano vuote come se fossimo gli ultimi che devono, misteriosa e obbligatoriamente, lasciare la città. Mentre comincio a percorrere il mio arco di curvone, giù sui binari - vuoti e lucidi come acciaio graffiato - un treno regionale percorre speculare e simmetrico un arco contrario, condividendo con me infiniti diametri di una nostra particolare, serena circonferenza.
Io penso sempre che tutto intorno a me sia vivo, vigile: che tutto intorno a me abbia un senso. Tutto vive e scivola sul parabrezza delle macchine, rami e cielo e facce alle finestre che chiamano la primavera; la città si mostra sul retro senza vetri dei furgoncini bianchi o blu, giocando ad allungarsi come un bambino che si veste con le cose dei grandi. Tutto si srotola lì, vetrine e fiancate di guizzanti motorini che tengono per un tempo indefinibile il riflesso dei miei passi o degli sguardi altrui, come ricordandomi che sono anche in un film registrato dalle cose, dalla città che mi avvolge come una sciarpa calda, come un cappio o un abbraccio insperato. Vado nella pioggia cantando il ritornello della canzone che esce dalla radio, prima un tono più alto e poi un tono più basso, e giro a destra mentre il coro galleggia sulla voce di Mick e non vuole più atterrare.
Il raccordo è lento. I campi dormono sotto la pioggia e ci ignorano. Fuggo i grandi camion che sprigionano potenza assassina mentre passo loro in mezzo, una traiettoria millimetrata, per raggiungere l'uscita. I pioppi che delimitano il viale di accesso scoppiano di gemme nuove e si spingono, gonfi, verso il vento.
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