venerdì 3 marzo 2006

Push me in the water

Mando un messaggio e poco dopo si accende lo schermo e si sente un leggero colpetto da batterista sul crash. Appare una lieve bustina.

Nonsochefaròcredoson
oimpegnatissimofinoast
aseratardicisentiamodo
mani.


Ok - scrivo e invio. Il semaforo diventa verde e mi tuffo nel rumoreggiare e gorgogliare di una San Lorenzo rilassata nel grigio di una giornata di metà settimana. Ragazi e ragazze vanno e vengono, parcheggiano i motorini e si prendono dalla vita o piluccano tra i libri delle bancarelle di Via De Lollis. Ausiliari muratori sistemano i marciapiedi di via Tiburtina come orafi del cemento, e l'uomo della scavatrice è come un incisore con in mano una titubante, ma gigantesca puntasecca che aspetta un gesto per graffiare più o meno profondamente quella precisa lastra di tempo su cui sono concentrati. Parcheggio vicino a condomini scampati al bombardamento, con i loro piccoli cortili interni, le madonnine coperte di rosari, le targhe che ricordano ed esorcizzano quel boato e quel tempo di silenzio prima delle urla dei feriti.

No, non sono ok, non è ok mi dico. Tutto questo è inutile. Non serve voler bene, è sempre un voler qualcosa. Volere è sol soffrire. Una foto di Aldo Fabrizi mi guarda, attonito bambino, da un salone-parruchiere in cui i caschi sono originali anni '50, come il resto. C'è il Bar dei Belli, la Tana dei Sardi, la Casina del Parco e anche un promettente Centro del Pane (Julius Verne, come potrebbe essere il Viaggio al Centro del Pane?). Ma non c'è il Sono con Te. Mi butto giù verso Porta Maggiore per le stradine interne, che sembrano un'allucinazione di periferia dura in mezzo al fermento del quartiere compatto come un formaggio svizzero.

Non volevo scrivere Ok, ma Mi dispiace che non ci sei. Volevo che sentissi quanto mi dispiace. Mi odio e non mi comprendo per non saper usare le parole in modi diversi che per finire, passare ad altro, rimuovere da me le proprie incapacità. Rimugino mentre la fila procede lentamente verso l'incrocio. Vedo su un terrazzo dei panni svolazzanti, colorati. Un rettangolo rosso, un asciugamano forse, trema al vento che si alza e trasloca senza riguardo nuvole grosse, piene di angoli acuti e punte nere. Trema e tenta di liberarsi dalle mollette.

Vola, penso. Va via. Vai via, cuore mio, da me.

Da dietro mi suonano un Cayenne nero, macchine e camioncini e un vecchietto col cappello dentro a un'Apetta. Ma io aspetto fino a che il tessuto si stacca e sparisce dietro le antenne, i comignoli, le curve della tangenziale. Vola come un palloncino scappato da una mano paffuta. Adesso sono ok.

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