Elogio della passata
Ho pianto, sì. Come in tutti gli amori veri, non riuscivo a capire perché qualcosa che soddisfaceva i miei sensi mi rendesse così incline alle lacrime. Dovevo anche tagliare, fine fine, senza indugi, ogni conversazione; e di corsa, o avrei finito per rifugiarmi nel bagno, il naso dentro all'asciugamano.
E ho anche riso, sì. La luce de sole era incollata sulla serranda socchiusa. Ogni tanto un raggio illuminava la resistente pelle rossa, che si spaccava dal troppo calore, come se la pentola e l'acqua bollente fossero una metafora vivente della scottatura da spiaggia. Poi ho spezzettato il tutto. Un'analisi impietosa non può che portare alla frullatura completa, ad una nemesi e trasformazione a maggior gloria della teoria della relatività. E di nuovo il calore, mi sentivo come una vampata di vergogna mentre condannavo la perfezione della natura alla perfezione della conserva: troppi effetti collaterali, bollire e lavare e poi pasteurizzare, mentre ricordavo ormai con nostalgia il semplice mordere la carne che resiste e cede in contemporanea, l'apoteosi di ogni frutto maturo. Poi, quale cuoco non conosce quel momento da Pigmalione in cui si assaggia, ci si allontana dall'opera per ammirarla o ricrearla, frutto delle nostre mani?
Niente cucchiai però. Il solo pane. E una conchiglia di sale.
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