Tanto oramai sei mia
A sole, vvié con mme. Quando va a Ostia il sole si appiattisce in spatolate sull'asfalto, le macchine attraversano finissime pareti di luce che per un secondo, adesso, si riflettono negli occhialoni quadrati di di un omone, Steviewonder revisited, con tutte le treccine più maglietta bianca attillatissima, che mangiucchia per scherzo la mano alla sua morosa mentre guida, e lei fa l'addolorata e poi ride e poi fa le smorfie, tutt'e due dietro a me. Alla loro sinistra, invece, un'altro ragazzone con addosso un catenone d'oro sulla maglietta nera legge un giornale sportivo sul volante. E dietro a loro le frecce che indicano: vai, vai. A destra, paralleli alla pineta, i cartelli dai nomi magici: Castelfusano, Torvaianica, parole che mi rotolano nella bocca come caramelle.Non posso parlare, io adottata, dei sentimenti dei romani per questa cittadina camaleontica, sottomessa d'inverno e trionfatrice d'estate. Quando non ne posso più del rumore cittadino (e ci sono fior di studi sui suoi effetti deleteri) punto la prua verso il mare come un pescatore che azzoppato da un piccolo incidente va verso una pozza vicina anziché verso il lago lontano: verso una Polinesia che non poté finire le elementari. Le sue aiuole bruciate, le palazzine senza storia, il lungomare troppo kitsch (con persino una palma artificiale arancione acceso) tutto coopera a farmi sentire come Schopenhauer trapiantato nell'età del rame. Ma quando finisce la Via del mare, la mia onda portante, e mi ritrovo dispersa nelle stradine senza disegno logico mi prende di colpo il languore, soccombo al muro bianco di luce che mi viene addosso sul lungomare; devo scendere, andare al pontile per odorare il mare e sentirne la voce, e sento che potrei rimanere qui per molti, molti giorni, a veder passare i ragazzi che si portano la morosa sul primo motorino, o i bambini che sbraitano davanti alle megabancarelle di dolciumi e poi vanno su e giù con il monopattino; o le prove, in un teatrino sulla piazza, di un gruppetto di danza che segue un ritmo interiore ancora troppo cadenzato: provano dentro a uno spigoloso silenzio, le dita dei piedi piene di cerotti come medaglie. Potrei restare qui, mi dico, sempre all'aperto; qui dove non c'è limite se non il mare. Ma la città ribolle, mi richiama. Un ritorno nel buio, qualche oasi di luce, una curva e sono sotto i semafori che mi danno la partenza per il circuito cittadino; giù, inseguita, e poi sorpassata dalla risata metallica di una KTM, fino a casa.
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