La chimica necessaria alla combustione
Togliere dalle spalle il giacchino bianco traforato; un gesto che può essere normale, ma non oggi, non adesso, mentre entro nella macchina e metto forte Regina Spektor, la sua voce masticata, aggredita, sarcastica. In cielo una crosta di sole resta malignamente sotto le nuvole strappate. Il giacchino conserva resti di dita leggere, intenzionate a null'altro che a toccare per prendere e conservare un mio calore, e per questo io le sento più intensamente, perché rimaste sulle spalle come una domanda. Canto a squarciagola. Corriamo tutti tra i motorini. E no, non posso fare un inversione a U e tornare indietro per provare se lo story board che mi sto costruendo - e che va velocissimo dopo la prima immagine, un semplice dito che preme un semplice campanello d'ottone - può essere adattato a giorni successivi.Fermo tra due macchine parcheggiate, un ragazzo vestito con maglietta e shorts di cotone bianco si stiracchia prendendosi un immensità di spazio. Mi guarda mentre passo, con sguardo di felino soddisfatto, ingozzato di troppa carne. O forse sono io che sento il calore aleggiare, mentre procedo nel tritacarne che è PortaMaggiore, limitata dietro dalle mura ingrigite e davanti dallo scorrere di un treno che schiaccia dal basso il cielo sofferente, già parcellizzato dalle linee elettriche sopra i binari, malato di una velatura che a Roma non si risolve in temporale, ma in accumulo di elettricità sulla pelle, sulle articolazioni, sulla punta delle dita.
Come se soffocassi di te, come se di te fossi stracolma: ma non è così. Prima che il semaforo diventi verde e io deva girare definitivamente per entrare nel parcheggio e nel quotidiano, prendo il giacchino per odorarlo. Ma so che è un gesto teatrale, qualcosa che poi devo scrivere per giustificarmi la contenzione di una febbre, per provare a spiegare perché, invece, non l'ho morso...
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