martedì 3 maggio 2005

Parlarsi addosso

Ripenso spesso a quello che mi dicono gli altri, nelle conversazioni di ogni giorno. Come, con quale tono, cosa dicono gli occhi, se la testa è girata e verso dove, se le mani mimano un gesto o sono in tasca, se ci sono silenzi musicali o di distanziamento. La comunicazione procede per righe di diversi colori, tutte insieme. Ci sono quelle grigie, le banalità, le schizofrenie, lo scontato. Righe nere di disprezzo, che non sopravvanzano. Righe rosse di passione, che raramente emergono. Righe gialle di menzogna e finzione, le più evidenti sempre. Righe verdi come mani che si tendono, verso il cuore. Tutto sul biancore di una parte della sincerità.

Così penso, quando parliamo, mentre tu mi rovesci addosso cascate di parole che non mi lasciano alcun segno nel cuore, e io sento invece vibrare tutte quelle frasi che stanno sotto, sensazioni parallele e confuse che cicatrizzano dentro come righe di pentagramma sulle quali ci sono soltanto segni di silenzio, la più eloquente delle parole. Non le posso fermare, dissossarle nell’aria da quella carne molle del comune parlare che nasconde la verità, e offrirtene le spoglie nude da affrontare. Non riesco più ad ascoltarti; faccio fatica a ritornare in me perché sto memorizzando a doppia velocità le inflessioni di dolore, le pause per sentire se rispondo, l’ansimare nel dire; c’è troppo dire, è un voler riempire lo spazio vuoto tra i due, diventato discarica delle parole. Sento che non c’è il cuore al calor bianco che trasforma le parole in una cosa viva, generatrice. E voglio finire, salutare meccanica e basta; imbastisco un mezzo rimandare ad altro tempo, ma è fuori luogo. Suona, perché lo sento, come un addio spugnoso, ambiguo. E mentre cala il sipario sorrido: che cosa buffa e crudele è la vita, che ci ha dato la parola per formare il sentire, per capirci e confonderci…

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