sabato 19 febbraio 2005

Di questa ed altre rose


 Posted by Hello

- Quel pezzo, è buono al forno?
- Certo. Ne vuoi metà?
- Non mi tentare...


Io sono carnivora. Ogni quindiciventi giorni parto all’alba da casa e dopo aver accarezzato con la fiancata del mio squalo i vecchi territori di Viale Manzoni (ci ho abitato per sette anni) mi fiondo per le curve del Muro Torto fino ad una parte di Prati addormentata, dove le case lucidate a colori pastello riflettono dai vetri delle finestre il Cupolone. Sono stradoni vuoti: via Oslavia, dove abitava Giacomo Balla; Viale Angelico, che finisce al di là di una luce feroce; uno sguardo fugace a Montemario irsuto di antenne e via per le stradine fino al Mercato Vittoria.

Arrivo così presto che trovo tutti intenti alle faccende, mi imbarazzo: è come fossero in bagno, presi a lavarsi dal sonno ribelle. E’ un tempo sospeso di pulizie e spostamento di casse nei carrelli: rumore di acqua nei secchi, frasi leggere che volano dalle lingue biforcute; costruire, appoggiare in torre le patate e i mandarini, allineare le buste di minestrone appena preparato. La macchinetta del minuscolo bar produce caffè ad ogni secondo più denso e profumato. Tutti vanno e vengono e si salutano, tenendo in una mano cartoccetti di cornetto e bicchieretti coperti con il tovagliolino e nell’altra i coltelli per pulire i carciofi: son ballerini rudi. Dopo cinque secondi di banchetto degli occhi ho tanta fame che mi mangio persino il cornettocerbiatto insieme al cappuccino con due dita di schiuma – di quelli che ti fanno i baffi e bisogna toglierli per convenienza sociale a-capo-chino, altrimenti saremo tutti felici selvaggi che si leccano il labbro superiore - , prendo le gomme e due boeri dalla carta rossa, che sono come le ciliegie: uno tira l’altro.

E’ sempre come in teatro. I tempi rispettati: la porta che dà agli uffici che viene da me chiusa causa spiffero tagliagola; arrivano i venditori bengalesi, che cantano la loro canzone di aglio come un mantra; apre la serranda del pescivendolo; serpeggia odor di pane. Gironzolo davanti al banco della carne guardando in termini di pezzo-intero-allo-spiedo e non di ordinati straccetti e severe fettine panate, ma tant’è. I tagli sono trattati a chirurgia plastica dai coltelli, senza alcuno sforzo. La bilancia soffre e pesa e si vede togliere strisce di tara: esco con le mie buste al mattino pieno, via per i lungoteveri.

Accecante sole, corridori, pigri benzinai che guardano il cielo, l’uomo senza una gamba che sta al semaforo di Ponte Risorgimento inverno e estate; accanto a me, sulla destra, si fermano due in moto. Lei, che guida, si gira e bacia lui fino a che scatta il verde. Vado, ripercorro l’aorta della città fino al tunnel che ingoia e poi proietta nel sole, a Castro Pretorio...

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